Il regionalismo differenziato applicato anche all’ambiente dimostra soprattutto una cosa: il governo Meloni non ha capito come funziona fisicamente l’ecosistema, cosa succede a un bosco quando è a cavallo tra due Regioni o al Po quando supera la Lombardia e arriva in Emilia-Romagna. Assolutamente niente: sono lo stesso bosco, o lo stesso fiume, con la stessa ecologia, lo stesso deflusso minimo vitale, le stesse esigenze. Nell’Ottocento lo scrittore statunitense Ambrose Bierce diede una buona definizione di cosa è un confine: «Una linea immaginaria che separa i diritti immaginari degli uni dai diritti immaginari degli altri».
Con la riforma votata dal Senato a fine gennaio, attesa dal passaggio definitivo alla Camera, i confini amministrativi delle venti Regioni italiane, che da un punto di vista ecologico sono linee immaginarie, diventano anche confini ambientali. Il disegno di legge concepito da Calderoli passa alle Regioni tutte le venti materie che prima erano oggetto di legislazione concorrente o esclusiva dello Stato. Tra queste ci sono, appunto, ambienti, ecosistemi, servizi ecosistemici, a cui ancora di più vengono applicati confini amministrativi, come se la fisica e la geografia potessero arrivare in subordine rispetto alle linee tracciate dalla politica regionale.
La crisi climatica, con le sue complesse dinamiche locali, ci ha insegnato soprattutto una cosa: ogni gestione dei beni comuni naturali ha bisogno di una visione d’insieme. Dinamiche complesse, come il drammatico abbassamento dei livelli di fiume a causa della siccità, richiedono un governo del territorio che vada oltre la frammentazione delle competenze. La scelta di inserire anche l’ambiente tra le materie del regionalismo differenziato significa che il governo ha letto con cura i segnali della politica (gli equilibri tra Fratelli d’Italia e Lega, la pressione dei governatori) ma non abbastanza quelli del mondo fisico.
Il Wwf ha definito il disegno di legge una «mina innescata per l’ambiente». Paolo Pileri, professore di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano, su Altraeconomia lo ha descritto come «una bomba per la natura e per il territorio». Metafore simili, stesso rischio: frammentare gli ecosistemi in coriandoli rende più forte la voce degli interessi particolari e più debole quella degli interessi generali. È una scelta che sa poco di futuro e molto di presente: i dividendi economici e politici saranno pagati nel giro di pochi anni, i danni ecologici si vedranno sulla scala dei decenni. Il regionalismo differenziato è una forma di debito politico e amministrativo scaricato sulle future generazioni.
Pileri fa un esempio efficace per capire come il regionalismo si sposi male con l’ambiente, soprattutto in un paese come l’Italia: l’esplosione del consumo di suolo, una materia la cui delega è stata concessa alle Regioni e da queste ai Comuni. Tutto in assenza di una legge nazionale, quella promessa permanente mai mantenuta da tutti gli schieramenti politici in sei legislature. Sulla scala locale, ogni ettaro consumato è sempre «solo» un nuovo progetto edilizio, «solo» un nuovo capannone, «solo» un nuovo parcheggio.
Ma quando ogni anno l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) aggrega i dati si vede il disegno d’insieme di un paese mangiato dal cemento e dall’asfalto, impermeabilizzato e vittima degli eventi estremi, con i dati più alti da dodici anni, nonostante i segnali naturali implorino gli amministratori di fare il contrario.
Aggiungo un esempio: la tutela forestale, un’altra materia in cui il regionalismo ha mostrato tutto il suo potenziale di scarsa cura e gestione del territorio. Ci sono voluti sessant’anni per avere un Testo unico forestale (2018) e una Strategia forestale nazionale (2022), proprio per iniziare faticosamente a invertire il trend dei danni fatti dalla frammentazione delle gestioni regionali al bosco italiano, che infatti cade a pezzi.
La frammentazione di queste due materie, suolo e boschi, ha fatto dell’Italia un Paese ecologicamente bipolare, in cui il suolo ha due sole opzioni: consumo estremo o abbandono, a seconda delle diverse miopie territoriali. Estendere questo modello a tutti i sistemi ecosistemici, per altro ancora non quantificati con i relativi livelli essenziali di prestazione, vuol dire rendere scalabile il peggio della nostra gestione del territorio. Non è una buona notizia.