Nell’emisfero settentrionale, dove l’ottanta per cento della popolazione dipende dai fiumi alimentati dalla neve, il manto nevoso continua inesorabilmente a scarseggiare. Questo è un problema non solo nell’immediato, perché pone ancora una volta la questione della sopravvivenza e della sostenibilità dell’industria sciistica, ma anche sul lungo periodo, perché ci espone a un maggiore rischio di carenza d’acqua in primavera ed estate.
«Siamo abituati a pensare alla neve come a un elemento importante per il turismo invernale, ma in realtà è una risorsa idrica fondamentale per supportare la vita nel nostro Paese e in generale nel nostro Pianeta: accumula acqua durante l’inverno e poi la rilascia in primavera e in estate, quando la pioggia diminuisce», spiega a Linkiesta Francesco Avanzi, ricercatore dell’ambito Idrologia e Idraulica di Fondazione Cima (Centro internazionale in monitoraggio ambientale).
La tempesta di neve che in questi giorni ha fatto precipitare le temperature parecchi gradi sotto lo zero in varie aree degli Stati Uniti deve essere vista come un evento eccezionale in quella che, dicono gli addetti ai lavori, è una nuova normalità climatica: siccità di neve, la chiamano, e le attività umane climalteranti vi hanno contributo con certezza.
Lo ha dimostrato per la prima volta un recente studio pubblicato su Nature. I ricercatori hanno analizzato centosessantanove bacini fluviali dell’emisfero settentrionale che dipendono dalle precipitazioni nevose: in quasi la metà di questi, soprattutto in Europa e Nord America, dal 1981 c’è stato un significativo declino del manto nevoso che li alimenta.
La situazione era già nota e monitorata da tempo dagli addetti ai lavori, ma ora si può affermare senza dubbio, e forse senza grande stupore, che non si tratta di una casualità o di un ciclo naturale, ma di un fenomeno collegato al riscaldamento globale di origine antropica. Anche secondo uno studio globale del 2020 nei primi diciotto anni di questo secolo, rispetto al ventennio precedente, l’intensità, la durata e la frequenza delle siccità nevose sono aumentate in diverse regioni montuose, in particolare in Europa, Russia dell’est e Stati Uniti occidentali.
La vera novità dello studio appena pubblicato su Nature riguarda però il modo non lineare in cui la neve risponde all’aumento delle temperature globali, ed è questo il motivo per cui non in tutte le zone del mondo il manto nevoso ha subìto lo stesso declino. La situazione, infatti, cambia drasticamente quando si supera la temperatura media invernale di -8°C: è questa la soglia-limite individuata dallo studio, l’orlo del precipizio oltre il quale i luoghi che dipendono dalla neve diventano molto più instabili e più sensibili ai cambiamenti climatici.
Quanto siamo vicini a questo salto nel vuoto? Sempre secondo lo studio, quattro quinti della popolazione dell’emisfero settentrionale vive in zone che hanno già superato tale limite: «È come se fino a un certo punto il fenomeno fosse in corso, ma in qualche modo latente, sottotraccia», spiega Avanzi. «Dopo una certa soglia, invece, si assiste a una risposta molto più veloce. È ciò che abbiamo osservato anche sulle Alpi italiane negli ultimi anni. I confronti sul fenomeno della perdita di neve in effetti non vengono fatti con gli ultimi cinquant’anni, ma con gli ultimi dodici: questo dall’idea dell’accelerazione molto forte del fenomeno».
Perché abbiamo bisogno della neve
La siccità nevosa può accadere per due motivi, che talvolta vanno a braccetto: non ci sono precipitazioni, e quindi la neve non cade a sufficienza, oppure fa più caldo del solito, e quindi la neve si scioglie prima del tempo. «In Italia, ma anche altrove, questi due fattori tendono a essere presenti in maniera sempre più frequente simultaneamente», commenta Avanzi. Chi abita in montagna o gestisce gli impianti sciistici ovviamente si accorge subito del fenomeno, cioè della presenza di neve al suolo inferiore rispetto alle attese (l’Italia è già oggi il Paese alpino più dipendente dalla neve artificiale, usata sul novanta per cento delle piste).
La maggioranza delle persone vive però nelle valli e in pianura, dove la piena consapevolezza della siccità nevosa arriva più tardi, in primavera ed estate, e si manifesta sostanzialmente con la mancanza delle risorse idriche necessarie per l’agricoltura, l’idroelettrico, l’industria e i consumi in generale. Ad esempio, in California, il grande orto degli Stati Uniti, si stima che la terra irrigata con l’acqua che proviene dalla fusione della neve a nord dello Stato produca ogni anno diciannove miliardi di dollari in prodotti agricoli. E proprio la grave siccità che la California e il sud-ovest degli Stati Uniti stanno sperimentando dal 2000, la peggiore degli ultimi milleduecento anni, è dovuta in larga misura al fatto che il clima è diventato troppo caldo e secco affinché la neve invernale possa accumularsi adeguatamente sulla Sierra Nevada.
Il ruolo della neve è difficilmente sostituibile, nel senso che la riserva idrica che perdiamo perché manca manto nevoso a terra non può essere completamente compensata da eventuali piogge primaverili più abbondanti. Il 2022 e il 2023 sono anni esemplari da questo punto di vista. Nel 2022, spiega Avanzi, «ha nevicato pochissimo durante l’inverno e abbiamo avuto una delle estati più secche da che ne abbiamo memoria. L’anno scorso, invece, ha nevicato poco durante l’inverno e tra la primavera e l’estate ha piovuto abbastanza: questo ha aiutato in parte a risolvere il problema».
In parte, non completamente, perché «la neve fonde poco alla volta, molto lentamente, e questo processo è perfetto per fare in modo che l’acqua si infiltri nei terreni andando a nutrire la nostra falda, le radici degli alberi. In questo modo l’acqua resta a nostra disposizione molto di più rispetto a quanto avverrebbe con un acquazzone, la cui pioggia finisce subito nei fiumi e poi nel mare».
Il deficit del manto nevoso ha un impatto anche sull’ecosistema e sulla fauna che abita le terre alte. Gli inverni molto rigidi e nevosi, ad esempio, avevano lo scopo di selezionare gli individui più forti. Oggi invece, come si osserva sia negli stambecchi alpini sia nei lupi, anche gli esemplari deboli o vecchi riescono a superare la stagione, con un conseguente indebolimento generale della specie. La mancanza di neve a terra influenza inoltre la stagione degli incendi, che iniziano prima di quanto ci si aspetterebbe.
È successo in gran parte del Canada nel 2023: qui la siccità nevosa ha fatto sì che già in primavera la terra fosse particolarmente riarsa, anticipando di conseguenza l’avvio di una serie di incendi che hanno bruciato complessivamente diciotto milioni di ettari di territorio. Tali roghi, tra l’altro, hanno favorito lo scioglimento della neve rimasta al suolo, perché l’hanno coperta di cenere e fuliggine (facendole attirare dunque più luce solare) e l’hanno privata della copertura naturale dei boschi.
La situazione della neve in Italia oggi
Come sottolinea l’ultimo monitoraggio di Fondazione Cima, in Italia attualmente il deficit di neve è leggermente migliore rispetto a dicembre 2023, ma è ancora presto per fare previsioni sulla primavera e soprattutto sull’estate che ci attendono. Il momento in cui fare i bilanci arriva di solito tra metà marzo e metà aprile, cioè quando la neve accumulata in montagna inizia a fondere. Abbiamo dunque ancora un paio di mesi utili per attendere eventuali nevicate che potrebbero, almeno in parte, migliorare la situazione. «Come diciamo sempre, però, una stagione di neve è una maratona: non basta uno sprint negli ultimi cento metri», chiarisce Avanzi. «Bisogna mantenere un certo ritmo lungo tutto l’inverno per poi arrivare con energia allo sprint vero, che è la fase di fusione».
A gennaio a livello nazionale il deficit di neve è di -39 per cento: un dato migliore rispetto a dicembre (-44 per cento), ma peggiore rispetto al periodo 2011-2021. Sulle Alpi, che hanno iniziato il 2024 con buone nevicate, il deficit è del -26 per cento rispetto alla media storica. Più preoccupante è la situazione sugli Appennini, dove tra ottobre e dicembre si sono registrate temperature anche 2,5°C superiori rispetto alla media: la neve di questi rilievi montuosi alimenta per esempio il fiume Tevere, ma attualmente il deficit è di quasi il 90 per cento.
Non sappiamo se la avvertiremo spaventosamente come nel 2022 o se sarà mitigata da piogge eccezionali come nel 2023, ma quello che possiamo attenderci anche quest’anno è una riduzione della disponibilità di risorse idriche in primavera e in estate. E non serve aspettare di vivere il giorno più caldo dell’estate, con la notizia di una eventuale nuova crisi idrica in apertura del telegiornale, per ricordarci che abbiamo già le possibilità e gli strumenti per tradurre in azioni ciò che ci dicono i dati e la scienza. A partire da una gestione più attenta dell’acqua a livello nazionale e regionale, oltre che individuale.
«Gli italiani, soprattutto alle pendici delle montagne, sono cresciuti abituati al fatto che l’acqua fosse una risorsa infinita. La siccità degli ultimi anni ci ha insegnato che non è così e che probabilmente, se queste tendenze climatiche continueranno, sarà sempre meno così». Questa però non è la fine della neve. Non ancora, almeno, ma dipende da noi e da ciò che vorremo e riusciremo a fare per contenere l’aumento delle temperature, ridurre l’uso di fonti fossili e limitare il più possibile l’impatto della crisi climatica.
«Il destino della neve passa quasi esclusivamente dalla capacità che avremo di mitigare l’impatto del cambiamento climatico», conferma Avanzi. «Gli studi ci dicono che se continuiamo come se niente fosse la neve, specialmente al di sotto di certe altitudini, diventerà una rarità. Non ovunque: in alcune aree del pianeta, come ad esempio la Scandinavia, potrebbe essercene di più; mentre nella fascia critica – Mediterraneo, Stati Uniti, Himalaya – si andrà sempre di più verso la riduzione. Ma non è un destino ineluttabile: dipende da quello che avremo il coraggio e la capacità di fare».