L’impiccionaLe cavallette, la moglie sulla Sila e il mistero del tizio con la borraccia

Cronache dalla carrozza silenzio nell’epoca della fine dell’irreperibilità

LaPresse/Belen Sivori

Pochi repertori citazionisti sono più condivisi di quelli che riguardano l’inadempiente che sciorina patetiche scuse, anche perché la stragrande maggioranza degli italiani è in ritardo su una consegna o ha trascurato un obbligo o un divieto, e quindi almeno una volta al giorno tutti noi sospiriamo «sì, le cavallette», e tutti noi cogliamo il riferimento di chi dice «sì, le cavallette».

Tutti tranne quelli che lavorano nei giornali, dove anni fa un caporedattore mi disse che era una citazione incomprensibile, e io capii che, ogni volta che ti dicono «poi il lettore non capisce», intendono che non capiscono loro.

Tutti tranne quelli che lavorano nei libri, gente che fa sembrare quella che lavora nei giornali raffinata intellettuale: anni fa un editor, a «ma tu lo sai a che ora mi sono svegliata stamattina, la bambina ha vomitato», rispose «non sapevo avessi una figlia».

Ma alle cavallette arriviamo dopo, ora dobbiamo parlare dell’unica volta in questo secolo in cui avrei dovuto chiedere a un uomo di sposarmi. Non ricordo l’anno o il tragitto, ma ricordo la composizione della carrozza silenzio del Frecciarossa.

Eravamo io in un posto singolo, un signore che leggeva un libro nel posto singolo dal lato opposto del corridoio; più avanti, un quartetto di poltrone era occupato da un trentenne con la madre. I due parlavano con l’accento degli italiani cresciuti all’estero, e probabilmente erano appena stati in visita ai loro parenti che non vedevano mai.

Avevano una macchinetta fotografica digitale, e scorrevano mostrandosele le foto. Ogni foto un bip. Al trecentesimo bip io avevo l’esaurimento nervoso, e loro non sembravano sfiorati dal dubbio che fosse meglio silenziare l’effetto sonoro.

Mi ero alzata, mi ero avvicinata, avevo indicato la vetrofania col profilo di una tizia che fa il gesto di zittire e la scritta che spiega che è la carrozza silenzio e si prega di evitare conversazioni a voce alta, telefonate, rava, fava.

I due avevano protestato, perché tendenzialmente l’essere umano ritiene più riposante stracciarti i coglioni per ore con le sue rivendicazioni che dire «ah, scusi». Io ero tornata a sedermi e, quando era arrivato il controllore, gli avevo chiesto di far presente ai due che si trattava di carrozza silenzio. Il controllore, già cuor di leone, aveva detto eh, ma non so, adesso vediamo.

Poi si era timidamente avvicinato ai due e usando un sacco di condizionali aveva riferito che ecco veramente la signora chiederebbe se visto che si tratterebbe in effetti di una carrozza silenzio. I due erano insorti.

Tendenzialmente, l’essere umano italiano – anche italiano all’estero – non è ferratissimo nella comprensione delle conseguenze delle azioni (i commenti di lettori che non capiscono il nesso tra i ricchi che non pagano le tasse in Italia e l’impoverimento del Ssn sono illuminanti, ma anche assolutamente logici: non pagando i ricchi le tasse in Italia, l’istruzione obbligatoria è quel che è).

Quindi, non solo i due erano in carrozza silenzio e non intendevano fare silenzio, ma erano anche offesissimi che qualcuno li sollecitasse in tal senso. Fatto sta che dicono al controllore che io li ho molto spaventati avvicinandomi ai loro posti. Con la mia aria da pugile, suppongo.

Insomma, dopo un po’ di questo circo, il signore seduto nel posto singolo alza la testa dal libro e pronuncia la battuta che m’innamora: «E insomma, basta: la signora non avrà un bel modo, ma ha ragione». Siccome sono scema, non gli ho infilato il mio numero in tasca. Ma volevo serbare il suo ricordo, quindi non ho mai più preso la carrozza silenzio.

No, non è vero. Non l’ho più presa perché l’idea che se poi a un certo punto voglio fare una telefonata non posso farla mi pare scomodissima, e perché le conversazioni degli altri non mi danno alcun fastidio, anzi: sono prezioso materiale narrativo. Più sono esibizionisti che raccontano i mitomani fatti loro in pubblico, più li ringrazio.

Fino alla settimana scorsa. Quando l’ho presa, la carrozza silenzio, ed eravamo anche questa volta in quattro, e i miei dubbi erano giusti: a un certo punto in tre eravamo in piedi tra una carrozza e l’altra perché dovevamo telefonare e ci eravamo condannati a una prenotazione in un luogo in cui non si poteva telefonare. Il quarto, lui proprio non si era posto il problema.

Era seduto alle mie spalle e, dopo un po’ che ciacolava, mi sono alzata. Era in videochiamata al computer. Ho deciso per una replica dei classici: gli ho indicato la vetrofania e ho detto «è la carrozza silenzio». Poi sono tornata a sedermi.

Lui ha concluso la conversazione, poi si è alzato ed è venuto verso di me come una furia. «C’è scritto conversazioni a voce alta, io parlavo a voce bassa» «Io però la sentivo da tre posti di distanza» «Perché lei è un’impicciona» «Certo, ero interessatissima a quel che ha da dire il genio che si prenota in carrozza silenzio all’orario in cui ha una videochiamata» «Non era una videochiamata, ero al telefono con mia moglie che non sentivo da tre giorni».

Le cavallette. Il ricatto della moglie lontana. Il sottotesto del grande amore da me orrida anaffettiva incompreso. La fatica che si accollano certuni convinti che se dicessero «Scusi, non ci avevo pensato» gli cascherebbe il cazzo.

Più tardi il controllore, incrociandomi tra le carrozze dov’ero andata a telefonare in piedi, mi avrebbe suggerito di, una prossima volta, rivolgermi a lui o a qualche suo collega che provvederà a intercedere, invece di dire direttamente al disturbatore di non disturbare, «perché sa, poi magari tra passeggeri nascono equivoci» (probabilmente la vittima delle mie pretese di silenzio gli aveva detto che avevo osato interrompere la sua conversazione con la moglie per invidia del loro grande amore).

Più tardi il passeggero sarebbe sceso, e io avrei notato che nella tasca laterale dello zaino (adulti con lo zaino: una garanzia) aveva la borraccia, e chissà come mai quelli con la borraccia, un po’ come quelli col cane, son sempre scemi (reprimete l’istinto di dirmi che voi avete sia il cane sia la borraccia e siete intelligentissimi e come mi permetto, e chiedetevi cosa l’urgenza di questa precisazione dica del vostro intelletto).

Ma tutto ciò era marginale, perché da quell’istante, e per i dieci giorni successivi, io non ho mai smesso di chiedermi: quali circostanze – nel 2024, nel secolo dei telefoni in tasca e della copertura satellitare pure in zone di guerra, nell’epoca della fine dell’irreperibilità, nel decennio del tracciamento – quali circostanze devono verificarsi perché tua moglie riesca a scansarti per tre giorni?

Lo so che probabilmente non era vero, come non lo erano le cavallette di Belushi e la bambina vomitante di Guzzanti, ma io ho un debole per il puro esercizio retorico, e quindi sono alla seconda settimana in cui cerco una risposta.

La moglie aveva cambiato numero perché aveva esaurito la riserva di pazienza disponibile per un cretino con la borraccia che non sa neanche spostarsi in una carrozza normale a telefonare quand’ha prenotato in quella silenzio? Uno che non sa fare una cosa del genere, uno così pensa cosa combina quando gli chiedi d’aggiustare lo scaldabagno.

La moglie stava festeggiando la trasferta fuori città del marito e per non venirne disturbata fingeva di avere il telefono scarico? Scusa caro, non sai che cavallette, proprio nessuno per tre giorni e tre notti ha avuto un caricatore da prestarmi.

La moglie era Fabrizio Bentivoglio in “Ricordati di me”? Ve lo ricorderete: quel film in cui lui si scopava la Bellucci (ma soprattutto: le declamava il suo romanzo – povera Bellucci, povere noi) e la Morante lo chiamava ossessivamente trovando sempre spento, e il mio all’epoca fidanzato disse «è un film che ti dice che se uno ha il telefono spento o è sulla Sila o ti sta tradendo», e sono ventun anni che ripeto questa frase, e ogni volta che la cito in un articolo c’è implacabilmente qualcuno che mi precisa che veramente sulla Sila c’è segnale.

Tizio con la borraccia che fai le chiamate in viva voce in carrozza silenzio, se mi leggi fatti vivo, voglio sapere com’è finita, se quella è stata un’occasione straordinaria e poi tua moglie è tornata a fingersi morta pur di non farsi annoiare da te, come ti poni rispetto alle interurbane, e se ti serve il numero d’un divorzista. Fatti vivo, intrattienimi, fammi felice: sono fan delle cavallette persino più di quanto lo sia del rispetto delle regole.

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