Il peso crescente che idee e politici estremisti – dichiaratamente razzisti, suprematisti e anti-arabi – hanno guadagnato nell’ultimo governo Netanyahu fin dalla sua costituzione è il grande alibi delle ambigue equidistanze sempre più frequentemente proclamate, in particolare dalle élite progressiste occidentali, tra Hamas e Israele, e delle cavillose equiparazioni tra il pogrom del 7 ottobre e le operazioni militari contro il terrorismo islamista a Gaza.
Quella sorta di lepenismo ebraico, che ideologicamente avvelena la destra israeliana ormai oltre i confini dei partiti ultra-nazionalisti o ultra-religiosi, non rappresenta ovviamente né la causa, né la giustificazione della strategia di Hamas contro lo Stato ebraico e non può costituire l’esimente o la scriminante della rilegittimazione dell’antisemitismo politico-religioso come estrema frontiera della battaglia anti-colonialista.
Non sono, peraltro, i suprematisti e i fanatici a rappresentare l’Israele che Hamas vuole distruggere – bensì Israele tutta – né gli ebrei che Hamas vuole ammazzare – che sono, appunto, tutti gli ebrei – e basterebbe a dimostrarlo la mattanza consumata il 7 ottobre non contro gli invasati coloni, che, aizzati proprio da politici come Ben-Gvir e Smotrich e ispirati dal letteralismo biblico, stanno cercando di fare esplodere la Cisgiordania con atti di provocazione squadristica e crimini sempre più frequenti, ma contro civili pacifici e pure pacifisti, che non occupavano nulla, ma ballavano e cantavano sulla terra che Hamas pensa di dovere liberare from the river to the sea.
Se però questa destra israeliana non rappresenta nulla di quel che Hamas vuole distruggere, rappresenta anche il contrario di quel che Israele e l’ideale sionista hanno rappresentato in termini di laicità, di libertà e di resistenza democratica. Proprio l’esatto contrario delle ragioni per cui tutte le democrazie (e tutti i democratici) dovrebbero difendere quell’avamposto del mondo libero nel Medio Oriente circondato dai nemici di tutte le libertà.
Israele oggi non è ed è ben lungi dal trasformarsi in una democratura etno-nazionalista, come in Occidente e in Europa gradirebbero tutti i suoi nemici nelle sinistre variegatamente anti-imperialiste, e tutti gli amici del premier israeliano Benjamin Netanyahu nelle destre sovraniste che tifano per la degradazione dell’ideale sionista in una ideologia reazionaria.
Lo hanno dimostrato, prima del 7 ottobre, le piazze d’Israele mobilitate contro una riforma orbaniana dei poteri della Corte Suprema e, dopo il 7 ottobre, le manifestazioni per denunciare le responsabilità di Netanyahu per quel vero e proprio suicidio strategico rappresentato dal rafforzamento di Hamas contro l’Anp, che doveva aiutare, nei piani del premier israeliano, a rinviare sine die il dossier politico della questione palestinese e a giustificare una politica di insediamenti in Cisgiordania fondata sulla logica del fatto compiuto.
Il pogrom e la guerra che ne è seguita dimostrano ampiamente che il machiavellismo di Netanyahu è servito invece a trasformare Israele non solo in un bersaglio, ma anche in una pedina dell’ecumene transnazionale nazi-islamista. Israele è più vulnerabile e, come non si stanca di ammonire Biden, più isolata e quindi più in balia dei suoi demoni esterni ed interni: fuori, di un antisemitismo ormai ampiamente sdoganato in nome del free speech nelle principali università occidentali e diventato quasi un corollario obbligato del radicalismo sedicente progressista e, dentro, di un suprematismo messianico razzista, che è il figlio degenere di un Israele forte di essere, proprio perché Stato ebraico, culla e presidio della società aperta e dello stato di diritto.
Chi ha cuore il destino di Israele come parte del destino dell’Europa, della sua colpa e della sua redenzione, oggi è costretto a muoversi su un crinale sempre più stretto e pericoloso, e a esercizi quasi involontari di autocensura: cioè a non esprimere fino in fondo la propria ripulsa per questo ignominioso (e pure auto-proclamato) fascismo ebraico, che vorrebbe fare di Israele ciò che Viktor Orbán ha fatto dell’Ungheria o, peggio, Vladimir Putin della Russia perché per equivoco ciò non sembri giustificare le retoriche onusiane e para-onusiane contro l’occupante israeliano (occupante per definizione, anche dove non occupa più nulla, come a Gaza, da quasi vent’anni) o peggio ancora l’antisemitismo come comprensibile reazione alla degenerazione del sistema politico della Knesset.
Però si tratta di due verità, ugualmente vere anche se non equivalenti nel giudizio politico sui fatti d’Israele e di Palestina e sulle responsabilità connesse che rimandano tutte, come primigenia radice, all’inaccettabilità di uno Stato ebraico e al rifiuto dell’accordo che nel 1948 tutti gli Stati arabi obbligarono i palestinesi a rifiutare, facendone per i decenni successivi l’alibi delle guerre contro gli ebrei e della monumentalizzazione di Israele come stato canaglia.
Se si tratta però di due verità ugualmente vere, vanno ugualmente dette. C’è, contro Israele, un “antisemitismo democratico” sempre più sdoganato, colpevolistico e mainstream, e c’è dentro Israele un sovranismo politico-religioso sempre più aggressivo, protervo e ontologicamente anti-israeliano, come il trumpismo è ontologicamente anti-americano, anche se concepito dai lombi dell’America più oscura e profonda.
Proprio chi non vuole cedere di un millimetro su quei Protocolli dei Savi di Sion contemporanei rappresentati dalla vulgata denigratoria dell’imperialismo sionista, cioè della mera esistenza di Israele come affronto inemendabile; proprio chi vuole contestare l’infamia del pogrom che «non nasce dal nulla», come dice Guterres, lasciando intendere che nasca dall’usurpazione manu militari della terra palestinese; proprio chi insorge contro l’uso proto-genocidario dell’accusa di genocidio rivolta agli ebrei e a Israele, camuffata da semplice disputa nominalistica («vabbè, non sottilizziamo, se non è genocidio sempre di un sacco di morti si parla, no?»); proprio chi diffida della retorica vuota dei due popoli e due Stati non come prospettiva da reiventare e riesumare dalla fossa comune, in cui, da Arafat in poi, tutti i leader palestinesi l’hanno seppellita sotto tonnellate di cadaveri, di doppi giochi e di doppie verità, ma come sogno eterno della dirigenza palestinese, sempre vanificato dalla protervia dello stato ebraico.
Proprio questo “noi” sempre più minoritario e assediato degli amici della verità su Israele ha il dovere di dirla tutta, questa verità sfigurata dalla destra teppistica e delinquenziale, che festeggiò l’assassinio di Rabin o oggi tiene bordone a un premier spregiudicato e sputtanato come Netanyahu, che gli elettori israeliani, se potessero, manderebbero a casa domani e che usa i morti e gli ostaggi del 7 ottobre e una guerra potenzialmente infinita per proseguire quella operazione speciale contro la democrazia israeliana, uguale a quella che Trump, recidivo, ritenterà contro quella americana.