Sono solo riempitiviBrodino, coperta e quella gran nostalgia per il Sanremo 99

I Festival che funzionano sono quelli in cui non dici trenta e più volte «oddio, mo cantano», quelli belli sono quelli in cui le canzoni servono ad andare a prendersi da bere

Marco Alpozzi/ LaPresse

«Vai in albergo». Pur avendo solo amici dell’età dei datteri, conosco vari giornalisti che quest’anno sono a Sanremo a perdere l’ultima verginità che era loro rimasta. Ho dato a tutti loro un solo consiglio: è impossibile vedere la serata sia dalla sala stampa sia dalla platea, torna in albergo e guardala in tv. 

Solo che, rispetto a quando lo facevo io, abbiamo appunto l’età dei datteri, e a una cert’ora, se intorno non c’è casino, l’abbiocco è inevitabile. E infatti io sono qui col brodino e la coperta, che mi accingo a consegnare l’articolo ben prima della fine prevista della prima serata (le 2 e 18, dice la scaletta: l’ora alla quale quando andavo in discoteca mettevano “Everybody needs somebody to love”; l’ora alla quale noi anziani dormiamo sbavando davanti a qualunque cosa stessimo guardando quattro ore prima). 

Eliminiamo però subito il falso problema della durata di Sanremo. Falso problema che risale alla mia gioventù, quando arrivò il gigantismo baudiano. Gente che non era nata ai tempi del Sanremo del 1998 linka oggi con voluttà Raimondo Vianello che, facendo quelle facce che sapeva fare solo lui, dice «dovete avere pazienza, sono ventotto canzoni». 

Anni fa, un autore del festival con cui mi lamentavo – come noialtri dai divani con abbiocco ci si lamenta ogni anno – mi disse più o meno: ma che cazzo volete da me, io ho l’ultimo nero a mezzanotte e mezza, non è che posso chiudere prima. «Nero» è lo spazio pubblicitario, e quell’anno l’ultimo era a mezzanotte e mezza perché era una di quelle edizioni che ora consideriamo brevi, quelle che chiudevano all’una e allora ci parevano insostenibilmente lunghe (lo erano). 

Quest’anno, un autore del festival al quale chiedevo incredula se non ci fossero sorprese, le cose annunciate erano zero interessanti, cosa me ne importa di Stefano Massini, che friccico può mai darmi, possibile che siamo passati da troppi ospiti a nessuno, quest’anno quello non mi ha detto «ma guarda che richiamiamo Ibrahimovic, l’ospite più scarso nella storia dei festival a pari merito con John Travolta, che pure abbiamo richiamato»; mi ha invece risposto più o meno: oh, ma se quello mette trenta canzoni non c’è il tempo per altro («quello» è Amadeus). 

La durata del festival non serve alle canzoni e non serve al pubblico e non serve ai poricristi quasi ottantenni che devono restare svegli e prestanti fino all’una di notte (Ricchi e poveri, vi mando un solidale abbraccio da sotto la coperta, secondo me si configura il reato di maltrattamento anziani). Serve perché Sanremo è l’unica produzione con cui la Rai si arricchisca: ogni ora in più sono nuovi neri, nuovi collegamenti sponsorizzati, nuovi spiccetti con cui pagheremo trasmissioni che, senza alzare una lira, dureranno comunque fino all’una di notte. 

Come dice un amico che sa la tv, la domanda non è perché duri fino alle due Sanremo, è perché duri fino all’una e mezza la Carlucci (la risposta è: perché deve chiudere dieci minuti dopo la De Filippi, per poi dire che lo share era alto senza specificare che lo share è alto perché intanto siamo andati tutti a dormire, e il novanta per cento di pubblico a notte fonda è costituito da dodici persone). 

La prima serata del festival l’ha aperta Marco Mengoni dicendo che avremmo ascoltato «le trenta canzoni che ci cambieranno la vita», e io ho pensato: amore della tua mamma, non sai niente. La mattina, nella conferenza stampa Coletta-priva, Mengoni ha detto che la co-conduttrice cui s’ispirava era Anna Marchesini, e io mi sono chiesta di cosa diavolo parlasse, poi ho capito: ha trentacinque anni. 

Ha trentacinque anni, e non sa niente. Non sa che quell’anno la Marchesini era la comica, mica la co-conduttrice, sostantivo che all’epoca non era mai stato utilizzato. In quel secolo le co-conduttrici si chiamavano ancora «vallette», e la valletta era Laetitia Casta (poiché se non mi cito non sono soddisfatta, da un mio pezzo d’epoca: con la dizione della pornocugina dell’ispettore Clouseau).

Avere la comica serviva, ascolta una vegliarda, Marco, a fare le gag comiche. Senza il comico o la comica, finisce che la gag il povero conduttore deve farla col valletto cantante e i retini e i materassini e le manette e Beppe Grillo scusa, non è che potresti tornare? (Certo Grillo aveva Serra e Benni e Ricci, questi tapini hanno autori che scrivono una gag sulle manette di cui minuti e minuti prima pure la comare Cozzolino sa che non verranno trovate le chiavi, e insomma è il solito declino delle élite).

E Mengoni ha ragione a citare quel Sanremo lì – quello del 1999, il primo di Fazio, il momento in cui un gruppo di trentenni ribaltava la televisione più istituzionale e ci sembrava perfettamente normale lo facesse: a raccontarlo oggi non sembra neanche vero – giacché siamo tutti d’accordo che è il Sanremo più importante tra quelli di cui siamo stati coevi. 

Ma è proprio quel Sanremo lì a dargli torto, un Sanremo di cui si ricordano il Nobel valletto, e Gorbaciov, e la parrucca di Cher, e la mutanda a vista di Anna Oxa, ma non una canzone che sia una. A Sanremo le canzoni sono un riempitivo. Sanremo funziona come i musical: quelli belli sono quelli in cui non dici mai «oddio, mo cantano», quelli belli sono quelli in cui le canzoni servono ad andare a prendersi da bere, o a mandare messaggi in cui commenti i vestiti delle vallette (o dei Mengoni). 

Per il pubblico non servono in tv, le canzoni. Lo so che sembro i giornalisti del Novecento che raccontavano cos’aveva detto il tassista per spiegare il paese in cui erano appena atterrati per la prima volta, ma il mio parrucchiere non guarda Sanremo: dice che tanto, da oggi, ogni volta che dirà «Alexa, metti la musica», l’algoritmo gli proporrà un pezzo sanremese. Cosa volete che gliene freghi di quel relitto novecentesco che è la tv. 

Per noialtre vegliarde per cui le canzoni ci mettono tempo ad attecchire, ogni qualche anno una rompe il muro dell’attenzione labile sanremese. In questo secolo, a memoria: “Soldi”, “Occidentali’s karma”, “Per tutte le volte che…”. E sì, “L’essenziale”. Ma io la canzone dell’anno scorso di Mengoni non so proprio come faccia, nonostante abbia guardato ogni serata dello scorso festival e nonostante Mengoni ce l’abbia rifatta nella sua serata da valletto (il valletto cantante che se non fa i suoi pezzi che l’abbiamo chiamato a fare è un incubo, Amade’, come t’è venuto in mente, già c’erano trenta canzoni nuove da sorbirsi, così è Guantanamo, così è un «oddio, mo cantano» ostativo). 

È per quello che aspettiamo tutti la serata delle cover, per la stessa ragione per cui si sono tutti entusiasmati per Joni Mitchell e per Tracy Chapman ai Grammy: perché vogliamo le canzoni che già sappiamo. Magari tra due anni la canzone che ha cantato Fiorella Mannoia vestita da prima comunione mi piacerà, ma alle nove di questo martedì sera riuscivo solo a pensare «ma non potrebbe rifarci “Caffè nero bollente”?». 

Magari tra qualche anno canterò questa nuova Berté con la voluttà con cui oggi canto “Amici non ne ho”, per ora sono riuscita solo a notare che è l’unica italiana che, vestita da rockstar, non paia ostaggio d’uno stylist infelice.

Magari domani questo festival avrà un momento bello come lo sono stati i tre minuti di Toto Cutugno, o forse è solo che noialtre stronze incontentabili il nazionalpopolare lo apprezziamo solo da morto.

Magari da davvero vecchia vorrò tantissimo sentirmi in sintonia coi giovani e questi tre coi capelli da cretini che una volta si sarebbero drogati e ora cantano con dietro la pubblicità progresso contro il suicidio non mi parranno penosi, ma per ora che sono solo vegliarda, ecco, guardo la scaletta e penso: ma i Sid Vicious che questo secolo può permettersi sono solo i quarti a cantare, oddio, mo cantano in altri ventisei? 

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