Ho due amici che non guardano Sanremo. Non sono abbastanza imbecilli da andare sui social a rivendicare la loro astinenza, ma neanche riescono a tacere. Ogni anno sbuffano: ma insomma, ancora Sanremo. Un po’ come se ogni domenica io sbuffassi: ancora le partite.
I miei due non guardatori di Sanremo sono di quel ceto medio complessato che va alle prime della Scala, fotografa gli Adelphi, ti dice che non puoi non andare a Parigi a vedere Rothko. Mica puoi metterti lì a spiegare che, se vai a vedere Rothko, ci vai in silenzio e vergognandoti, come accadrebbe a loro se si sorprendessero a canticchiare «dududù dadadà».
Una dei due ha un vantaggio competitivo: novantacinque anni d’età. Quindi può dire frasi meravigliose come «ma tu non hai visto quello di Claudio Villa contro Tajoli». Il che mi getta in un tunnel di disperazione: cosa esistono a fare gli archivi se non mi forniscono un bigino dei Sanremo del Novecento? (Che le immagini dei vecchi Sanremo non siano disponibili su RaiPlay è la più eloquente dimostrazione che cambiano le epoche i governi le dirigenze, ma la Rai è sempre gestita da ubriachi molesti).
L’altro giorno con un’amica ci siamo rese conto che non abbiamo idea di quali Sanremo abbiamo visto e di quali abbiamo sentito solo parlare. Mi piace pensare di averli visti tutti, ma figurati se, nella mia smania giovanile di uscire la sera, non ci sono stati anni in cui l’ho perso.
Anche perché adesso Sanremo, essendo diventato welfare, si spalma su una settimana ed è impossibile non vederne neanche un minuto (se non sei un militante della non visione come i miei due amici, che mi aspetto sempre facciano la fine di quel personaggio di “Caro diario” che partiva vantandosi di non guardare la tv e al terzo giorno di vacanza era già ossessionato da “Beautiful”).
Ma i Sanremo della nostra infanzia non erano ancora incontinenti. In quello che so più a memoria, quello del 1981 che poteva permettersi di non far vincere “Maledetta primavera” o “Ancora”, Claudio Cecchetto annunciava che per la prima volta sarebbero state trasmesse tre serate, che peraltro duravano un’ora l’una; prima di allora, andava per intero solo la finale. D’altra parte c’è stato un tempo in cui quelli che guardano le partite trovavano, in tv, solo un montaggio di gol: il completismo è una malattia del contemporaneo.
Di sicuro ho visto quello di quarant’anni fa: ricordo l’indignazione di mio padre per quant’era vestito male Eros Ramazzotti. E quello di trentun anni fa: ricordo la casa in cui vidi la finale, la crudeltà di noialtre ventenni di fronte alla dizione della Pausini (ma pure alla giacca).
Quello del 1995, con la più interessante coppia di vallette tra quelle inventate da Baudo, e Anna Falchi che sul palco dice «sta succedendo di tutto sotto la mia gonna» e Claudia Koll che fuori dal palco lamenta che la Falchi dica certe cose per far parlare di lei (maggiùra).
Quello del 1997, unico di cui ricordi non i vestiti ma una canzone: lavoravo in un programma del mattino, dovevo montare le immagini col meglio della serata, sono passati ventisette anni e ancora non mi capacito che “…e dimmi che non vuoi morire” fosse arrivata così bassa in classifica, dico, non ce le avete le orecchie.
Gli altri boh, gli altri non so se ero davanti alla tv o in qualche inutile serata mondana, e soprattutto non so cosa fosse successo tra Villa e Tajoli. Google non mi soccorre ma mi fornisce un reperto: Sanremo 1982, Claudio Villa furibondo con Ravera (i Sanremo in cui dicevamo «patron» e «kermesse»: come mi mancano).
A un certo punto, è un tg Rai, c’è l’inquadratura d’un microfono appoggiato contro una porta dietro la quale Villa urla. Ma quindi c’è stato un tempo in cui la copertura Rai del più ricco baraccone Rai non era liturgica. C’è stato un tempo in cui giravano talmente tanti soldi che ci sentivamo liberi di far vedere le magagne del nostro prodotto di punta.
Adesso, figurarsi. Adesso prendiamo tutto sul serissimo, e non sarò certo io a fare critiche. Non sarò certo io a dire che temo questo Sanremo sia noiosissimo. Certo, la Mannino, la Cuccarini, impeccabili professioniste, ma Sanremo non si fa con le impeccabili professioniste, si fa con le Ferragni e le Herzigova e le Casta, si fa con quelle che sanno l’italiano il meno possibile e ci permettono di ridere di come si sono conciate.
Non sarò certo io a chiedere quel che incredibilmente nessuno chiede ad Amadeus, cioè come sia andata con Lucio Presta, suo agente ma anche molto altro, soprattutto l’uomo che ha preso un conduttore di seconda fascia e ne ha fatto il Baudo che questo secolo può permettersi. Cos’è successo di così dirompente da, invece di aspettare che passasse il festival come civiltà avrebbe suggerito, annunciare la separazione professionale poco prima che cominciasse? Esiste un Amadeus senza Presta? Il minuetto con Sinner sarebbe stato gestito meglio, se ci fosse stato Presta?
Certo, potrebbero chiederglielo in conferenza stampa, che è riuscita anch’essa a diventare un evento televisivo, giacché Sanremo è welfare per tutti. Per noialtri che per una settimana non dobbiamo preoccuparci di avere argomenti di conversazione. Per i privilegiati depressi che sono tristi fino al ritorno dell’ora legale e per una settimana si distraggono. E per i giornalisti delle pagine degli spettacoli, che di norma nelle redazioni contano come il due di coppe quando briscola è a denari, e invece questa settimana possono darsi un tono.
Solo che il Sanremo che temo sarà noiosissimo la sera rischia d’essere noioso anche la mattina: smentitemi, ditemi che in conferenza stampa ci sarà Coletta. Voci incontrollate dicono di no, e io, come negli inverni delle scuole medie guardavamo con struggimento le foto sfocate coi filarini del mare, guardo gli appunti degli anni scorsi.
«Vorrei che le vostre penne si connaturasse a questo sentimento di letizia». «Questo linguaggio che si dicon l’un con l’altro, Freud direbbe: il famoso motto di spirito». «Trovo che quest’anno il livello musicale sia davvero molto ficcante». Come faremo senza l’enfasi di Coletta, il lessico di Coletta, l’elidecatenaccismo di Coletta.
Che senso ha, Sanremo, se io la sera faccio tardi ad ascoltare canzoni di cui non m’importa niente, invece della Ferragni c’è Mengoni le cui lettere a sé stesso non genererebbero uno straccio di parodia, e la mattina neppure posso rimirare il dirigente Rai che è stato il vero protagonista degli ultimi festival, quello che dopo la pandemia ci disse «non sono un esperto di musica ma ce ne sono alcune che balleremo perché anche il nostro corpo è stato intitolato in una prigggionia di movimento».
Se mi tolgono Coletta io finirò per diventare come quei due che dicono ma non capisco cosa lo guardiate a fare, questo Sanremo. È questo che volete? Ridurmi a ceto medio complessato? Se mi levate Coletta, io faccio una settimana di articoli sull’emozione d’andare a vedere Rothko. Sì, è una minaccia.