Sono molto delusa dalla conferenza stampa del giovedì, quella che resterà nella storia del festival come la conferenza stampa delle scarpe di Travolta. Sono molto delusa perché hanno iniziato mezz’ora in ritardo e io pensavo fosse per mettersi d’accordo su una versione dei fatti, e invece ne hanno date quindici.
Sono molto delusa perché non ci sono più i dirigenti democristiani di una volta, quelli che questo pasticcio avrebbero saputo gestirlo. Sono molto delusa perché non c’è più neanche Coletta, che magari non avrebbe saputo gestirlo ma almeno ci avrebbe intrattenuti.
Sono molto delusa perché l’ossessività per la questione travoltiana mi toglie righe in cui avrei lodato l’eroismo di Teresa Mannino, che in conferenza stampa ha detto le uniche parole indicibili degli ultimi anni, le uniche parole che tutte noialtre adulte sotto dittatura della dodicennitudine pensavamo in vile silenzio. Non mi piace il Fantasanremo, ha detto l’eroica Teresa, e io avrei solo voluto cantarne le lodi, per quello ma non solo per quello.
Sono molto delusa perché volevo parlare di come Giorgia il mercoledì e Teresa Mannino il giovedì avessero detto alcune delle cose più femministe mai sentite al festival, e invece il monopolio dell’attenzione sull’annosa questione dell’inquadratura delle scarpe mi costringe a parlare dello scandale du jour.
Soprattutto, sono molto delusa perché in conferenza stampa nessuno ha citato l’imprescindibile mediazione, per la gita travoltiana, di Oscar Generale, figura meravigliosa che le biografie riportano essere «nato a Rivarolo Canavese e residente a Los Angeles». Oscar Generale, su cui Antonio Pietrangeli avrebbe potuto fare un grandissimo film, ha avuto una figlia da Denny Mendez, la miss Italia del 1996, e sul sito dell’agenzia fotografica Getty è inginocchiato, al festival di Cannes di dieci anni fa, a chiedere la sua mano. A guardarli sorridenti, John Travolta e Kelly Preston.
Oscar Generale per Google è produttore cinematografico, ma soprattutto è l’amico italiano degli americani famosi, per i quali fa da organizzatore di campagne pubblicitarie: Dustin Hoffman per il caffè Vergnano, Julia Roberts per Ferré, Bruce Willis per Cesare Paciotti, e poi Richard Gere, Demi Moore, Paris Hilton, e appunto Travolta. Non c’è campagna lost in translation che non passi da lui, parrebbe: se un americano vuole venire a fare un po’ di soldi facili in Italia, Oscar is the man.
Ora, la questione non è il diritto costituzionale dell’americano famoso di farsi dare dei soldi, né quello dell’imprenditore italiano di buttare i soldi come vuole (il produttore delle scarpe indossate da Travolta ieri mitomaneggiava che alle tre di notte lo chiamassero chiedendogli le scarpe efficientemente promosse da un attore che ha fatto l’ultimo film notevole ventisette anni fa).
La questione è il rapporto ridicolo della Rai coi marchi. Chiunque sia mai comparso in un programma Rai vi racconterà di loghi su cui è stato messo lo scotch o scenette simili. Al Sanremo 2019, Achille Lauro cantò l’assurdo verso «vestito bene a via del Corso», giacché l’originale «vestito bene Michael Kors» per la Rai era pubblicità e quindi vietatissimo.
Che «Michael Kors» detto con la dizione di Lauro sia più pubblicità che i riconoscibilissimi vestiti che indossa chiunque nel secolo in cui indossiamo stilisti e non sarti è un’idea ridicola, che possono partorire solo dei romani la cui idea di moda è Gai Mattiolo. Che, senza i loghi, la moda non venga riconosciuta è un’ipotesi ubriaca.
Al Sanremo 2021, il marito della Ferragni aveva una camicia Versace più riconoscibile d’uno spot pubblicitario; ma, senza andare così indietro, non è che servissero scritte o loghi per sapere che mercoledì Giorgia era in Dior: servivano gli occhi, e due conoscenze di base rispetto all’abbigliamento.
L’alternativa all’abbigliamento riconoscibile è tornare alle sartorie su misura (magari), o vestirli tutti con tute da carcerati: magari la prossima direzione artistica di Sanremo potrebbe pensarci. La conferenza, dunque. Quella dello scandale des chaussures, tutto il frisson che resta a cavalli pazzi estinti.
Quando iniziano le domande su Travolta, la dirigenza e il conduttore allestiscono, spesso in contemporanea, le seguenti versioni dei fatti: Travolta è arrivato in teatro all’ultimo momento e quindi nessuno ha fatto in tempo a notare il logo sulle scarpe; Travolta è stato ore in camerino con gli autori che gli spiegavano lo sketch; il logo avrebbe dovuto coprirlo un ragazzo che però era in soggezione davanti alla star (il fatto che questa versione la dia una vicedirettrice che parla con la voce di Paperina richiederebbe l’apertura di molti incisi sulla questione delle donne al potere: un’altra volta).
Su una cosa devono aver concordato una versione, e quella cosa è: Travolta è venuto gratis, solo per il rimborso spese, ha chiesto lui di venire (non dicono «era il +1 di Oscar Generale», che almeno farebbe ridere). A sembrare Bob Woodward in una sala stampa che sta lì più che altro per farsi le foto coi famosi ci vuol molto poco, e giovedì è il turno-Woodward di Silvia Truzzi, che in un inciso butta lì che comunque non si capisce cosa gliene sarebbe venuto, a Travolta, dal partecipare a Sanremo gratis.
Ovviamente l’inciso non viene raccolto (non rispondono alle domande dirette, figuriamoci se raccolgono gli incisi), ma forse, come dire, esacerba gli animi. Fatto sta che poco dopo una poracrista dalla sala stampa minore, quella delle radio, prende la parola e fa una involuta domanda traducibile in: ma a parte i soldi, si può sapere a noi che cazzo ce ne frega di John Travolta che in tutto nella sua carriera ha fatto quattro film che si ricordino e nessuno in questo secolo? Possibile che siamo il paese dove vengono a fatturare gli anglofoni senza più una carriera, da quella degli Skunk Anansie in su e in giù?
Solo che lei non la dice così. Riferisce che sui social si dice che quest’anno gli ospiti stranieri non abbiano «un valore aggiunto a livello socioculturale». Amadeus si fa ripetere la domanda, formulata con lo zelo di chi ci tiene a farci sapere che aveva buoni voti a scuola ma del tutto innocua, e sbrocca.
La poracrista si piglia una lavata di capo sul fatto che si vuol fare polemica a tutti i costi e non ci si concentra sulle cose belle, e a me viene in mente Ben Affleck. Nell’estate del 1998, Affleck promuoveva “Armageddon”. A uno degli incontri stampa, un giornalista gli chiese di “Dogma”.
“Dogma” era un film di cui la Disney si diceva avesse bloccato la distribuzione ritenendolo blasfemo (c’era Alanis Morissette che interpretava Dio, Affleck e Matt Damon erano due angeli), e insomma era un tema a rischio polemico quasi quanto le inquadrature delle scarpe di Travolta.
La cronaca della risposta di Affleck è forse l’unica frase d’un attore ch’io abbia mai memorizzato: mancava un anno alla scena Cavalli e segugi di “Notting Hill”, e in quel momento quella risposta era la più prodigiosa sintesi esistente di quella sindrome di Stoccolma che è il giornalismo di spettacoli.
Noi vi facciamo venire qui, aveva detto Affleck al tapino, vi diamo le tartine, vi offriamo da bere, vi regaliamo le magliette e i cappellini: e voi ci mettete in imbarazzo facendoci queste domande? Ben Affleck allora aveva ventisei anni, oggi probabilmente non sarebbe così esplicito nel suo maramaldeggiare; Amadeus ne ha sessantuno, e ha avuto la continenza di non dire alla poracrista «prima mi chiedi i selfie e poi mi rompi i coglioni col valore aggiunto socioculturale» – ma si vedeva che lo pensava.
Breve divagazione, direi flashback ma naturalmente ciò che sto per raccontare non è mai avvenuto, è una fantasia, un’ipotesi di scuola, una puntata di “Black Mirror” ambientata il giorno della finale del Sanremo 2019.
A un certo punto del sabato, Claudio Baglioni si chiude in camerino minacciando di non uscirne. Non era stato possibile rimandare oltre, ed era stato necessario dirgli che era stato messo in scaletta un duetto tra Renato Pozzetto e Lo stato sociale. Avrebbero cantato “La vita l’è bela”, vecchio pezzo di Cochi e Renato.
Solo per coincidenza, naturalmente, il brano in quel periodo sonorizzava lo spot d’una certa azienda italiana. Solo per amor di speculazione filosofica, si potrebbe qui ipotizzare che la Rai avesse fatto con quell’azienda un accordo per ricevere un assegno di importo bonaventuriano, in cambio del quale far passare questo sketch travestito da non pubblicità (e quindi fuori dai conteggi del cumulo pubblicitario).
Facciamo finta che questa ipotesi assolutamente dell’irrealtà su cui sto fantasticando sia vera, e teniamo conto che cinque anni fa non era ancora stato appaltato ai social il ruolo di disvelatori della verità, di giustizieri, di controllori degli sponsor. Insomma: quel numero si sarebbe potuto fare senza problemi.
Senonché Baglioni non ne vuole sapere: se si fa questa cosa io non conduco. In quest’ipotesi dell’irrealtà, parte una trattativa tra Stato (non sociale) e terroristi (lo Stato è ovviamente rappresentato da Baglioni). Alla fine, a causa del veto baglioniano a far salire la réclame sul palco, lo sketch viene degradato a un minuto preregistrato, in playback, fuori dall’Ariston. Cioè nel punto in cui l’altra sera Travolta e Fiorello hanno fatto “Il ballo del qua qua”. Il punto dove si fa la storia, per quanto riguarda i disastri sanremesi.
Cosa ci dice tutto questo sui rapporti tra la Rai e gli sponsor, sul valore socioculturale di Oscar Generale, sulla filmografia di Travolta, sulla libera stampa, sulla distanza di percezione tra Fiorello che si è profuso in scuse per la pochezza dello sketch e Amadeus che continua a ripetere che lui si è divertito tantissimo?
Probabilmente niente, ma intanto questo niente si è preso tutta la nostra attenzione, distogliendola da Russell Crowe – che, per chiudere tutti i cerchi, è stato annunciato dal bel mezzo della telepromozione del divano. E io non riesco a ricordare se i divani siano gli stessi di cui era testimonial Sabrina Ferilli, che poco prima era anche lei sul palco di Sanremo: ci ostiniamo a importare testimonial forestieri sebbene questo paese non abbia abbastanza marche di divani neanche per tutti i famosi italiani con diritto costituzionale a un posto da testimonial (né abbastanza tartine per tutti i giornalisti accreditati al festival). Arrivano ad arrubbarci i posti nelle pubblicità, vengono qui con l’aereo privato, poi devono rientrare delle spese ed ecco lì che: al mio segnale, scatenate lo sponsor.