Le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere possono essere certificate. Da un paio di anni, infatti, le aziende italiane hanno degli incentivi collegati all’ottenimento della certificazione riguardante la parità di genere sul luogo di lavoro. In generale la politica adottata dall’impresa viene valutata in relazione alle opportunità di crescita, alla parità salariale a parità di mansioni, alla gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità.
Gli indicatori per ottenere la certificazione sono divisi in sei macro categorie: (1) cultura e strategia; (2) governance; (3) processi Hr; (4) opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda; (5) equità remunerativa per genere; (6) tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro. Per quanto riguarda gli incentivi alle aziende che ottengono la certificazione, la legge prevede due vantaggi: un esonero contributivo e un punteggio premiale per la partecipazione a bandi europei, nazionali e regionali. Con riferimento all’esenzione previdenziale, il vantaggio per ciascun datore di lavoro non può superare i 50.000 euro annui e l’1 per cento dei contributi dovuti.
L’introduzione di questa certificazione ha l’effetto di valorizzare il concetto di discriminazione indiretta che ricorre quando un provvedimento o una procedura adottati da un azienda sono apparentemente neutri ma in concreto discriminano un determinato gruppo di persone. I datori di lavoro che non saranno in grado di giustificare secondo criteri oggettivi l’adozione di una determinata politica retributiva, infatti, rischiano di dover risarcire i dipendenti penalizzati. Dipendenti che troppo spesso sono ancora donne. Tremate, tremate, le cause son tornate!
*La newsletter “Labour Weekly. Una pillola di lavoro una volta alla settimana” è prodotta dallo studio legale Laward e curata dall’avvocato Alessio Amorelli. Linkiesta ne pubblica i contenuti ogni. Qui per iscriversi