In controtendenza rispetto all’aumento dei prezzi in Europa, il costo dei pannelli solari continua a calare. In particolare, nei primi tre trimestri del 2023, è sceso del venticinque per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Un dato che pone interrogativi sia sulle cause, sia sulle conseguenze. Queste ultime riguardano la crisi dei concorrenti europei, che rischiano la bancarotta e di infrangere i sogni di una maggiore indipendenza economica dalla Cina nel raggiungimento degli obiettivi della transizione verde.
Le mire di Pechino sono chiare: affermare una posizione di dominio sul mercato del fotovoltaico e costringere l’Ue alla dipendenza dai suoi prodotti. I pannelli cinesi rappresentano infatti più del settantacinque per cento del totale dei prodotti importati. La strategia cinese degli ultimi dieci anni è stata supportata da un investimento complessivo di oltre cinquanta miliardi, superando nettamente la somma autorizzata dagli Stati membri dell’Unione europea.
La materia prima principale alla base della produzione di pannelli solari è il silicio, un elemento che rappresenta in peso quasi il trenta per cento della crosta terrestre, nonché il secondo più presente sul Pianeta dopo l’ossigeno. Si può trovare all’interno di rocce magmatiche, metamorfiche e sedimentarie. Per produrre i semiconduttori, però, il quarzo deve essere trasformato in silicio metallico attraverso un processo particolarmente energivoro.
La produzione è sempre stata delegata fuori dall’Europa, spesso in Paesi dove gli standard ambientali e di sicurezza sono meno scrupolosi, anche per la lavorazione troppo dispendiosa. Il metallo deve essere lavorato per raggiungere una purezza prossima al cento per cento, finché non viene ridotto nuovamente a silicio metallico, che rientra ufficialmente tra le materie prime critiche, poiché non riciclabile e attualmente privo di sostituti. È infatti solo con questo grado di purezza che può essere utilizzato per la realizzazione di pannelli fotovoltaici.
La produzione dei pannelli solari prevede un processo suddiviso in cinque fasi. Si parte dall’estrazione del silicio policristallino; il polisilicio viene poi fuso e colato in lingotti, successivamente tagliati in fogli sottili – i wafer –, sottili lastre che devono raggiungere il livello massimo di purezza. Questi vengono saldati per creare le celle che vengono assemblate e laminate prima di unirsi ai moduli del prodotto finito, cioè il pannello solare.
Il vantaggio di Pechino sta proprio nel dominare ogni stadio della catena produttiva. Secondo i dati forniti dall’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), la Cina detiene una quota di mercato pari all’ottanta per cento della fornitura di silicio policristallino, l’Ue solo l’otto per cento. Anche il novantasette per cento dei wafer utilizzati nel mondo è di produzione cinese, mentre l’Unione europea è ferma allo 0,5 per cento. Pechino detiene l’ottantacinque per cento delle celle, al fronte dello 0,6 per cento europeo, mentre per i moduli sono al settantaquattro per cento contro il “nostro” 2,8 per cento. In merito vi sono difficoltà anche per gli Usa, totalmente sprovvisti di capacità di produzione di lingotti, wafer e celle di silicio.
Ciò rappresenta un problema per l’Europa, poiché – secondo il piano industriale della Commissione europea – la produzione dell’Ue dovrà soddisfare almeno l’ottantacinque per cento della domanda annuale per la tecnologia eolica, il sessanta per cento per le pompe di calore, l’ottantacinque per cento delle batterie, il cinquanta per cento degli elettrolizzatori e il quaranta per cento dei pannelli solari. Raggiungere quella percentuale non sarà affatto semplice. In più, l’Iea ha previsto che la produzione cinese di pannelli solari raddoppierà la sua capacità entro il 2024, nonostante si tratti di una produzione sovradimensionata rispetto alla domanda globale.
SolarPower Europe, la lobby Ue del settore, ha denunciato il problema alla Commissione europea, sostenendo che Bruxelles dovrebbe intraprendere due strade: un’acquisizione di emergenza delle scorte di pannelli dei produttori europei di energia solare – al fine di eliminare una fonte di deprezzamento dei moduli – e la reintroduzione di un divieto di importazione di prodotti ottenuti grazie al lavoro forzato.
Ed ecco le cause del basso costo. Lo Xinjiang, regione situata nel Nordovest della Cina, è abitato da diverse minoranze etniche, tra cui quella degli uiguri, sottoposti a gravi repressioni. Negli ultimi anni il governo cinese ha attuato dei programmi che prevedono il trasferimento di milioni di uiguri in «strutture di addestramento» per «garantire un impiego stabile a persone di tutte le etnie», chiamandolo «lavoro in eccedenza» o «trasferimento di lavoro». Purtroppo, nei fatti, questi programmi equivalgono al trasferimento forzato di popolazioni e alla loro riduzione in schiavitù. Tutti i produttori di polisilicio nella regione uigura hanno confermato la loro partecipazione a questi programmi o che si riforniscono da aziende di materie prime che lo hanno fatto.
Pechino ha sempre dichiarato che non si tratta di lavoro forzato, ma d’altro canto non consente visite a ispettori internazionali nei complessi della regione interessata. Le condizioni degli uiguri e delle altre minoranze nella regione sono state spesso denunciate. Secondo diverse organizzazioni per i diritti umani – che parlano di «genocidio culturale» – almeno un milione di persone sono state detenute nei campi, torturate e costrette ai lavori forzati. I dati sono stati confermati anche dall’ultimo rapporto dell’Onu.
Nel 2023 il polisilicio prodotto nello Xinjiang ha rappresentato il ventisette per cento della produzione cinese, una percentuale inferiore rispetto al cinquantasette per cento precedente grazie all’entrata in vigore della Uyghur forced labor prevention act (Uflpa) negli Usa. In seguito alle accuse di lavoro forzato nella regione, infatti, la produzione si è spostata in altre parti del Paese, come le regioni autonome di Ningxia e Mongolia interna. Nel 2022 anche la Commissione europea aveva presentato una proposta simile, ma non ci sono stati particolari sviluppi.
Per i consumatori, tracciare l’intera filiera produttiva dei pannelli solari è molto difficile. Ad esempio, i clienti internazionali che assemblano e installano i moduli potrebbero acquistare polisilicio proveniente dallo Xinjiang senza esserne consapevoli. Inoltre, anche se si trovassero collegamenti con lo Xinjiang, ciò che accade nelle fabbriche rimane un mistero, come si legge in un’inchiesta di Bloomberg.
Gli Stati Uniti, al fine di prevenire l’importazione di beni potenzialmente realizzati sotto lavoro forzato, hanno ostacolato l’ingresso di alcuni prodotti. Nel 2021 grazie all’Uflpa è stato imposto il divieto di importazione della maggior parte dei beni provenienti dallo Xinjiang. All’interno della categoria rientrano tutti i prodotti in vendita sulla famosa app Temu, ad esempio, ma anche Shein. Successivamente è stato bloccato anche l’import di silicio policristallino dallo Xinjiang, quindi di tutte le materie prime, i beni intermedi e i prodotti finiti diretti negli Stati Uniti.
Alla fine del 2023, la Customs borders and protection (Cbp) ha autorizzato negli Usa un ristretto numero di contenitori con moduli solari realizzati con polisilicio cinese non proveniente dallo Xinjiang. Si tratta di un evento significativo per il mercato solare statunitense: dall’entrata in vigore dell’Uflpa, la Cbp aveva autorizzato solo moduli realizzati con polisilicio prodotto in Europa e Sud Est asiatico. L’Europa potrebbe seguire l’esempio americano e bloccare ogni importazione di polisilicio derivante dalla regione dello Xinjiang, accettando il rischio di dover aumentare i costi di produzione dei pannelli fotovoltaici.