La zona grigiaIl linciaggio di Donato Carretta e il brutale popolo della demagogia

Nel romanzo "La condanna" (Rizzoli), Walter Veltroni racconta la storia di un giovane giornalista che ha il compito di ricostruire la vicenda del direttore del carcere di Regina Coeli, linciato in modo selvaggio nel settembre 1944

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«Sai per me qual è “il punto cieco” della vicenda di Donato Carretta?»

Fabiani smette di sfogliare le venti cartelle – saranno troppe? – che ho finito stanotte e che ho subito inviato a Loredana, ricevendo poco dopo – forse non dormiva neanche lei – una sincera, entusiastica approvazione. Si ferma su una pagina e alza la testa. Ha lo sguardo incuriosito, quello che preferisco in ogni essere umano.

«No, Giovanni. Qual è?»

«È l’assenza della voce di Carretta, il suo fragoroso silenzio. In tutte le cronache… credimi, in questi quindici giorni ne ho consultate tante… risultano poche cose. Sembra abbia detto: “Non fatemi del male” durante le prime colluttazioni e, alla Ricottini che gli urlava contro, abbia solo ribattuto, con voce flebile: “Ti ho tanto aiutata, Tagliaferri”. Quando, miracolosamente, è riemerso cosciente dalle acque dove lo avevano gettato avrebbe solo detto, mentre cercava un appiglio: “Vi prego, aiutatemi”.

Per tutta risposta quelli, dei tipi in costume da bagno e con la voglia di menare, lo hanno preso a colpi di remo e lo hanno finito.

Le cronache non riportano null’altro della sua voce.

Lo hanno additato come nemico, lui, il testimone dell’accusa contro l’aguzzino Caruso. Lo hanno aggredito, lui, che aveva vestito gli evasi antifascisti. Lo hanno picchiato, bastonato, gli hanno fracassato un occhio e il torace, lo hanno gettato nel fiume, lo hanno colpito anche lì. Fino a quel momento, a dispetto della violenza degli uomini, Donato Carretta era vivo, respirava, poteva salvarsi, tornare da sua moglie e dai suoi figli dopo una lunga degenza in ospedale. Carretta era vivo, dopo le botte, dopo il lancio da Ponte Umberto.

Vivo, non è incredibile? Ne volevano far salsiccia, del suo corpo, ma lui resiste, vivo. In questa scena, che è durata decine e decine di minuti, un vero calvario, si sente un unico suono. La folla gridava ogni cosa: “Uccidetelo”, “Linciatelo”, “Il popolo, il popolo”, “Facciamo come in Francia”, “Deve soffrire come hanno sofferto i nostri parenti”, “Assassino, assassino”, “Al fiume, al fiume”…

Tutti urlano, lui ha un filo di voce. Lo hanno lasciato solo, anche chi ha cercato di salvarlo.

Quando lo lanciano nel fiume non c’è il tenente Vescovo, non c’è Strazzera, non c’è Angelo Salvatori. È solo come un cane randagio. Avrà pensato ai suoi figli, a sua moglie, alla vergogna per quello che gli stava succedendo, ai vestiti scozzonati e la camicia di fuori, all’occhio che non vedeva, al sangue che zampillava.

Avrà pensato che forse lo avevano scambiato per Caruso, o forse no. Avrà pensato a Civitavecchia, alla profezia di Pesenti, alla bambina polacca sottratta alla deportazione, al sangue di Gracceva, a suo figlio nel lager, alle bandiere socialiste che sua moglie tesseva, al soprabito dato, insieme al lasciapassare, a due futuri presidenti della Repubblica, due capi dell’antifascismo italiano.

Lui da solo, decine di persone che lo uccidevano. Una lotta impari. Mussolini è a Salò, Hitler in qualche bunker. Lui no, lui lo hanno linciato ed esposto come un trofeo di caccia. Lo hanno insultato e lapidato.»

«Fermati su questa parola, Giovanni: lapidato. Anche io ho studiato in queste due settimane e sono andato a ritrovare un testo che mi aveva molto colpito, quando uscì: Il “crucifige!” e la democrazia.

Ora, è chiaro che non si possono paragonare Carretta e Gesù. Ma in entrambe le situazioni è stata la folla a decidere di ucciderli. In un caso perché un giudice tremebondo sottopose alla folla la scelta tra Gesù e un ladrone. Una forma aberrante, autoritaria e falsa di democrazia.

Nel caso del linciaggio di Carretta è invece la folla che si arroga il diritto di decidere la sorte di un uomo e lo giudica senza che possa difendersi, persino senza sapere chi sia e cosa abbia fatto davvero. È la folla che si fa potere, in tutti e due i casi. Sembra democrazia, no? Invece è arbitrio e disumanità, il contrario della democrazia. Quella vera. Senti cosa dice Zagrebelsky.»

Fabiani prende un libretto bianco dell’Einaudi e comincia a leggermi: «“Una folla di questo genere era per sua natura portata all’estremismo, alle soluzioni senza sfumature, prive di compromessi. Sfumature e compromessi, del resto, avrebbero richiesto la possibilità di confrontare e ponderare le posizioni, ciò che non fu possibile e nemmeno si volle. D’altronde, il quesito stesso che era stato posto aveva il medesimo carattere: la morte dell’uno o dell’altro. […] Qui si pone la domanda: se il popolo capace di agire è il popolo della democrazia e quello che subisce è il popolo delle autocrazie, quello chiamato soltanto a reagire è il popolo di quale forma di governo? Forse, conformemente all’etimo, il popolo della demagogia.”

E poi aggiunge, a proposito della folla: “In sintesi: il popolo decidente sulla sorte di Gesù era una massa, con tutte le caratteristiche negative tipiche che a essa abitualmente e paradigmaticamente, e quindi anche schematicamente, si ascrivono. Di democrazia, in quel caso, si può parlare ma a condizione che si precisi: democrazia nella pessima delle sue versioni degenerative, il regime della folla informe ed emotiva, della plebe inconsapevole e irresponsabile”.

Non vedo l’ora di leggere per bene queste tue note. Ottimo lavoro, Giovanni. Anche se, secondo me, sei stato fin troppo indulgente con il personaggio Carretta. In fondo non gliel’aveva ordinato il medico di fare il direttore di un carcere di detenuti politici e deve anche aver cinicamente chiuso gli occhi sulle violenze praticate dai suoi sottoposti. Poi sarà davvero cambiato, per mille e un motivo, ma quei torti non si cancellano. E gettano una luce fosca su una vita di chiaroscuri, come quella di tanti in quegli anni spietati. Nel mio cuore preferisco chi, in quel tempo, ha scelto, nettamente, di dire di no al regime fascista. Perché nei fatti di quegli anni non ci sono torti e ragioni che si equivalgano. Aveva torto chi ha privato gli italiani della libertà, aveva ragione chi l’ha restituita. Punto e basta. Ma proprio per questo la storia di Carretta è orribile e non va nascosta, né si devono trovare giustificazioni di sorta. Chi ama la libertà non può accettare che un uomo venga linciato e straziato in quel modo, senza un capo d’accusa, un processo, la possibilità di difendersi. Questo lo fanno i dittatori e i regimi. Il linciaggio di Carretta è quanto di più lontano dagli ideali e dalle regole della democrazia.»

© Rizzoli 2024

Tratto da “La condanna” di Walter Veltroni, Rizzoli, 224 pagine, 17,57 euro

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