In Italia l’acqua fa acqua: non è solo la nota e annosa (ma mai risolta) questione delle perdite della rete italiana degli acquedotti, da cui sparisce circa il quaranta per cento della risorsa idrica trasportata dalle fonti alle utenze domestiche e alle imprese. C’è di più e di peggio: fa acqua un sistema di governance che è un colabrodo di inefficienza e su cui nessun governo si azzarda a mettere le mani.
Il risultato, oltre la già citata dispersione di quasi la metà dell’acqua convogliata nelle condutture, è una completa mancanza di investimenti, concentrata nelle gestioni pubbliche, quelle in economia (realizzate direttamente dagli enti locali) e quelle cosiddette in house, ossia operate da Spa ma controllate dal pubblico. Le cifre, come tutte le altre che seguiranno, provengono da un denso e articolato studio della Arthur D. Little (società di consulenza strategica) dedicato al sistema idrico italiano appena: una ricostruzione preziosa dello sfacelo del settore, ma anche delle sue potenzialità.
Nell’Unione europea la spesa media in termini di investimenti nel settore idrico è di ottantadue euro l’anno per abitante. In Italia siamo a meno della metà: trentotto euro. Cifra che è già di per sé una media: gli investimenti operati dalle gestioni imprenditoriali, tipicamente quelle delle maggiori utility, da A2A alla romana Acea fino a quelle di medie dimensioni, sono sempre sotto la media Ue ma ci si avvicinano di più: cinquantasei euro. Acqua e condutture gestite direttamente dai piccoli Comuni investono appena la miseria di otto euro l’anno ad abitante. Ed è una media anche questa.
Il paradosso è che questo disastro nasce da una condizione naturale ottimale: l’Italia vanta infatti un patrimonio idrico fra i più ricchi in Europa, e solo adesso la riduzione delle precipitazioni e l’aumento delle temperature stanno determinando una progressiva diminuzione della disponibilità idrica e un’intensificazione delle crisi, evidenziando così la vulnerabilità dell’infrastruttura idrica: poco interconnessa e poco digitalizzata e quindi non capace di ottimizzare il bilanciamento tra fonti ed impieghi, caratterizzata da perdite idriche elevate e da un importante fabbisogno di investimenti per rinnovare gli asset esistenti e svilupparne nuovi indispensabili per garantire la tutela futura della risorsa idrica (depuratori, invasi e impianti di gestione fanghi di depurazione).
Una situazione che è ben nota anche a Bruxelles, che ha infatti aperto contro l’Italia ben novecentotrentanove procedure di infrazione, riguardanti in specie l’inadeguatezza dei servizi di fognature e depurazione, e che per il settantadue per cento dei casi riguardano regioni del Sud. Il consumo idrico in Italia, anzi, in termini tecnici più corretti (la ripartizione dei prelievi idrici), si divide in tre parti: uso civile, agricoltura e industria.
Il primo è l’acqua potabile dei consumi domestici ma anche degli esercizi commerciali e degli uffici: è l’acqua che usiamo per bere, mangiare e lavarci, e pesa poco meno di un terzo del totale, il trentuno per cento. La fetta più grande, il cinquantasei per cento, è usata dall’agricoltura per l’irrigazione delle colture. L’Industria ne usa appena il tredici per cento. L’agricoltura si approvvigiona direttamente da fiumi, laghi, naturali e artificiali, bacini di raccolta di acque piovane, canali. L’industria ha in maggioranza una sua struttura di pescaggio da pozzi e solo in minima parte è servita dagli acquedotti. Questi sono appannaggio degli usi civili. Collegano fonti e sorgenti con le città. E le città con fiumi e il mare.
Perché il ciclo dell’acqua è doppio: un’infrastruttura si occupa di alimentare i consumi, mentre una seconda di recuperare le acque di scarico e depurarle. E sono queste infrastrutture il cuore del problema: venticinquemila chilometri di condutture vecchie, mal manutenute, mai ammodernate e dove l’era digitale, con i suoi sensori in grado di individuare subito un guasto, è ancora un futuro da fantascienza. Senza interconnessioni tra di loro. Un fenomeno che moltiplica le interruzioni del servizio, soprattutto al sud.
Eppure i soldi ci sarebbero. Anzi, ci sarebbero stati: peccato che dei fondi Ue a disposizione degli acquedotti ne usiamo appena il trentanove per cento, cosa che ci pone agli ultimi posti nell’Unione. Ora ci sono i fondi del Pnrr. Sono quasi tre miliardi di euro: novecento milioni per ammodernare le tubature e altrettanti per il sistema irriguo (per creare sistemi di riutilizzo circolare dell’acqua per irrigazione); seicento milioni per le fognature; cinquecento milioni per finanziare sistemi di monitoraggio dei cambiamenti climatici. A settembre scorso si è chiuso il termine per l’aggiudicazione delle gare d’appalto, che sono state in sostanza tutte assegnate.
Il problema inizia ora con l’operatività. Le statistiche sono a sfavore del Paese: sui lavori di rete idrica in corso sono infatti aperte trecentodiciassette contestazioni da parte di enti locali, cittadini e imprese. Il dieci per cento è addirittura più vecchio di dieci anni. Arrivare al progetto esecutivo e all’apertura dei cantieri è spesso un miraggio: calcola la Arthur D. Little che ci sono almeno dieci enti autorizzativi da cui attendere la luce verde, e un iter che ha una durata media di 4,4 anni.
Una cosa è da mettere subito in chiaro: l’acqua è pubblica e di tutti. Il problema non è la proprietà dell’acqua, ma chi ne gestisce la distribuzione. E siamo al rompicapo. Il settore idrico in Italia è regolato dalla legge Galli del 1994, che porta in Italia il concetto europeo di Sii, Servizio idrico integrato, dove si disegna il ciclo dell’acqua dalla raccolta alla distribuzione fino al ritiro con le fognature e alla depurazione, e quindici anni dopo dal decreto Ronchi di fine 2009.
Dal punto di vista del servizio idrico, il territorio italiano è diviso in sette distretti idrografici (Padano, Alpi Orientali, tre distretti appenninici, Nord, Centro e Sud, più le due isole, Sicilia e Sardegna). Ognuno è governato da una autorità di bacino, i magistrati delle acque che si occupano dello stato di salute di fiumi, laghi, ghiacciai e fonti. E fin qui nulla di strano. Il caos è tutto nella gestione delle tubazioni dell’acqua potabile, dove inizia la sarabanda dei numeri. Gli acquedotti sono governati da cinquantotto Ambiti territoriali ottimali (Ato): sono definizioni territoriali che vengono governate da un soggetto pubblico, gli Ega, gli enti di gestione.
L’attuale numero – cinquantotto – è frutto di accorpamenti successivi. Per esempio il Lazio aveva cinque Ato che oggi si sono accorpati in uno unico. Anche Puglia, Campania, Emilia Romagna hanno un unico Ato, la Lombardia ne ha invece dodici e la Sicilia nove. Ogni Ato si suddivide poi in “bacini di affidamento”, ossia territori e infrastrutture da affidare ad un gestore unico. Originariamente, secondo la legge Galli, dovevano essere uno per provincia ma ci sono stati degli accorpamenti. Il Lazio ne ha tuttora cinque, quante le province, come anche Piemonte, Marche, Sicilia. La Puglia uno solo, affidato alla Acquedotto Pugliese e così la Sardegna. L’Abruzzo, con quattro province, ne ha sei. Tirando le somme, quindi, i bacini di affidamento sono in tutto novantadue.
Finito? No, perché i bacini di affidamento vengono suddivisi in “sottobacini di affidamento”: di questi ce ne sono centoventitré. Già la legge Galli promuoveva l’affidamento ad un gestore unico di ogni singolo bacino. Ma, stando ai conti della Arthur D. Little, i gestori unici sono al momento centottantasei. Abbiamo finito? Ma neanche per sogno. Perché nonostante la legge Galli sia del 1994, non tutti i novantadue bacini – diciamo – primari, sono stati affidati a un gestore: ce ne sono ancora sette che non lo sono stati. Tra questi, quattro hanno appena avuto l’affidamento ma non è ancora operativo e tre, dopo trent’anni, sono ancora a zero.
Degli ottantacinque bacini primari affidati, solo sessantatré sono stati affidati ad un gestore unico, come vorrebbe la legge. Peccato che di questi sessantatré solo tre siano società private, anche quotate, in pratica le multiutility. Inoltre, nove sono finiti a gara a società private locali, più piccole e otto sono stati invece assegnati tramite una cosiddetta “gara a doppio effetto”: la concessione viene data senza gara a una società pubblica la quale si impegna a individuare un socio privato attraverso una qualche forma di selezione. Ma la fetta più grossa, composta da quarantatré bacini, è stata affidata a gestioni in house.
Infine, ci sono millequattrocento Comuni che sono rimasti a prima della legge Galli e gestiscono acqua potabile e fognature in economia, attraverso un ufficio e dipendenti comunali. Sono nelle regioni in cui ci sono ancora bacini non assegnati: Campania, Calabria, Sicilia, Molise e Val d’Aosta. Ricevono a tutt’oggi l’acqua dalle amministrazioni comunali il settanta per cento dei calabresi, il trenta per cento dei campani, il trentacinque per cento dei siciliani, il sessantacinque dei molisani e il sessanta per cento dei valdostani.
«Noi lavoriamo con molti operatori, li supportiamo nella partecipazione alle procedure per l’affidamento delle concessioni per il servizio idrico integrato e sappiamo che è una situazione complessa con un potenziale grande interesse da parte delle utility e una carenza invece di opportunità sul mercato dall’altra», spiega Irene Macchiarelli, partner di Arthur D. Little, specializzata in infrastrutture energetiche e idriche. Tra gli Enti di governo d’ambito (Ega) – prosegue – «non c’è grande capacità di rispondere a queste esigenze, ognuno singolarmente fa poche gare, a distanza di anni. Non ci sono in questi enti competenze specifiche formate, il rischio di ricorsi è elevato e conseguentemente diventa difficile attrarre le gestioni industriali. E poi anche nei bacini affidati, ci sono spesso più soggetti presenti (oltre al gestore unico) quali gestori salvaguardati e comuni che gestiscono il servizio in economia, che sono la vera ragione dell’elevata frammentazione gestionale».
Un caso tipico è quello di Como, che è pure la provincia con il minor tasso di dispersione di acqua dalla rete di condutture. Il bacino è stato affidato a un unico gestore, ma i gestori risultano ancora tre perché ci sono gestori precedenti che resteranno attivi fino alla fine del loro contratto. Quello che si occupa di fognature ha per esempio un contratto che scade nel 2036.
«La cosa migliore per evitare contenziosi è spingere gli attuali gestori pubblici ad unirsi volontariamente e favorire l’evoluzione verso società miste pubblico-private. L’obiettivo – continua Macchiarelli – è comunque di accelerare nel consolidamento del settore, scendere fino a non più di sessantacinque gestori, azzerare completamente le gestioni in economia. E magari nel frattempo supportare le amministrazioni locali con indirizzi di programma di livello nazionale al fine di concentrare le risorse sugli ambiti di intervento prioritari per il Paese e di favorire l’interconnessione delle infrastrutture per una maggiore tutela della risorsa idrica. Soprattutto quelle delle grandi adduzioni e delle dighe. Le amministrazioni più piccole, che siano ancora titolari dei diritti di concessione, aiutandole ad organizzare le gare, gli affidamenti e la loro unificazione in consorzi sempre più ampi. Servirebbe una specie di Consip dell’acqua che dia certezza di azione agli amministratori pubblici e certezze regolamentari alle imprese che vorranno investire».