Dubbi di un lingu(acc)ista: ma di cosa diavolo parliamo quando parliamo di qualche cosa che è “in tinta”? Sì, lo so (tocca usare la prima persona, perché è un dubbio molto personale, forse è una idiosincrasia mia e soltanto mia, però me lo devo levare ’sto sassolino), lo so, lo sanno tutti, grossomodo, c’è anche sui dizionari: dicesi «di qualcosa che ha un colore uguale, simile o che lega bene con quello di un’altra cosa a cui si abbina: una cravatta in tinta con l’abito, un divano in tinta con le pareti», così il De Mauro.
Ok, l’avevo detto che tutti, quando sentiamo pronunciare o leggiamo questa espressione, capiamo grossomodo quel che si intende. Potremmo anzi fare un passo ulteriore e provare a precisare.
Quando “in tinta” è seguito dalla preposizione “con”, come nei due esempi del De Mauro, siamo in presenza di una locuzione preposizionale: in questi casi si intende che il colore del dettaglio (la cravatta, il divano) è più o meno differente ma va d’accordo con quello dell’insieme o dello sfondo (l’abito, le pareti). Quando invece “in tinta” è usato da solo, in capo a una frase, abbiamo a che fare con una locuzione aggettivale, e le cose si complicano un po’: se sentiamo dire, per esempio «carrozzeria rosso Alfa e particolari interni in tinta», possiamo ragionevolmente pensare che il colore della carrozzeria e quello della plancia siano uguali; se però la frase è «tailleur blu navy e accessori in tinta», questo “in tinta” significa probabilmente che gli accessori hanno il medesimo colore del tailleur, ma potrebbe anche voler dire che sono di un altro colore o di una diversa sfumatura del medesimo colore che con quello del tailleur leghino bene. E dunque, semplice armonia cromatica o risoluta identità? Non lo sapremo mai (se non andando a vedere).
Il dubbio, però, non è propriamente sul significato – convenzionale e non ben definito – della petulante locuzione, quanto sul perché questo significato le sia stato attribuito. Quando con “in tinta” si intende “in tinta coordinata”, o “che si armonizza, si combina, lega bene con” un’altra tinta, è ipotizzabile l’ellissi dell’aggettivo o delle locuzioni anzidette (ma allora perché non elidere, sottintendendola, la parola “tinta”? non sarebbe tutto più chiaro?); quando invece si intende che i colori sono uguali, non eviterebbe qualsiasi ambiguità esplicitare che appunto sono uguali?
E se l’origine del modo di dire fosse un’altra, e solo successivamente l’ambiguo significato vi si fosse sovrapposto, per un fenomeno combinato di automatismo inerziale e contagio imitativo?
Un vecchio conoscente mi ha raccontato una volta che dalle sue parti, quand’era ragazzo, “in tinta” si diceva di una camicia per intendere che era colorata, al contrario di quelle più diffuse che erano bianche. Le “sue parti” erano Venezia e dintorni, ma possiamo plausibilmente credere che la medesima espressione, con il medesimo significato, fosse in uso anche altrove, visto che nell’Italia povera e forzatamente sobria dei tempi andati il vestiario era limitato all’essenziale, e alle (poche) camicie bianche, che vanno bene con tutto, potevano tutt’al più aggiungersene una azzurra e una rosa.
Proprio la considerazione che in ogni guardaroba doveva trovarsi una camicia rosa pare abbia suggerito ai giovani liceali fondatori della Juventus, nella Torino di fine Ottocento, la scelta di quell’indumento come divisa ufficiale della squadra, che soltanto nel 1903 importò dall’Inghilterra la classica casacca bianconera.
Insomma, “in tinta” non vorrebbe propriamente dire che qualche cosa ha un colore coordinato o identico a quello di qualche altra cosa, ma soltanto che ha un colore, che non è bianca. Nella percezione popolare non meno che nella speculazione scientifica, infatti, il bianco, al pari del nero, è considerato un “non colore”, o “colore acromatico”: nel suo trattato sull’Ottica, pubblicato nel 1704, Isaac Newton ha spiegato che il bianco non è un colore primario, come ritenevano gli antichi, ma la mescolanza additiva delle lunghezze d’onda di tutti i colori dello spettro (al contrario del nero, risultante della loro mescolanza sottrattiva) e che questi colori mescolandosi si annullano (ma ritornano visibili se una luce bianca è fatta passare attraverso un prisma di cristallo, come nella celebre copertina disegnata nel 1973 dal grafico inglese Storm Thorgerson per l’album “The Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd). E dunque, mentre una camicia acromatica (bianca) può legarsi bene più o meno con ogni colore presente nell’abbigliamento, una camicia “in tinta” (colorata) non necessariamente vi si lega, anzi bisogna farci molta attenzione. Come quando, con il pilota automatico inserito, si usa l’espressione “in tinta”.