Se a Helsinki e Stoccolma la discussione sull’ingresso o meno nella Nato è stata decisa nelle settimane successive al 24 febbraio 2022, a Oslo la questione era già chiusa da settantatré anni. Eppure la Norvegia era e rimane uno dei punti più sensibili nello scacchiere globale a causa della prossimità del Paese alla Russia.
La Norvegia è, infatti, parte integrante della Nato dalla sua fondazione, un ruolo necessario in virtù di Paese occupato dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale e politicamente vicino all’Occidente, tanto che il governo e la corona norvegesi trovarono riparo a Londra fino alla liberazione nel 1945.
Nella comprensione del fenomeno ci guida il Maggiore Andreas Lander, portavoce delle Forze Armate Norvegesi: «È importante notare che per la Norvegia la Nato è un fattore essenziale per la sicurezza nazionale, dopo la Seconda guerra mondiale il governo ha portato avanti lo slogan “aldri mer 9. April” (mai più un 9 aprile, giorno dell’aggressione nazista, ndr) e per questo la Norvegia è entrata nella Nato». Rompendo una storica neutralità. «Prima della Seconda guerra mondiale e negli anni immediatamente successivi, la Norvegia aveva la stessa politica neutrale della Svezia, che tra l’altro aveva funzionato durante il primo conflitto, ma con l’avvento della Guerra Fredda è emersa una questione di sicurezza dovuta alla vicinanza di quella che allora era l’Unione Sovietica».
Come apparso nell’articolo dedicato alla Svezia e alla sua attuale situazione dopo l’ingresso nell’Alleanza Atlantica, il Circolo polare artico rappresenta un territorio di fondamentale importanza. Qui, poche settimane fa, circa ventimila soldati hanno svolto un’esercitazione di guerra simulando la difesa contro un attacco russo nelle regioni settentrionali del Paese nei pressi di Alta, non lontano dalla Finlandia e, soprattutto, dal confine con la Russia.
«Dal 1949 al 1990 il focus è stato sul mantenimento di aree importanti di territorio fino all’arrivo di truppe Nato, in caso di invasione sovietica», spiega Lander. «La linea principale, chiamata Frøy-linjen, era composta da bunker in aree montuose e posizioni prefabbricate dotate di mitragliatrici incrociate verso Nord. Quello era il luogo dove i sovietici dovevano essere fermati. La maggior parte della linea è stata smantellata, ma alcuni bunker sono ancora operativi».
I circa duecento chilometri di confine terrestre attraversano quasi esclusivamente il corso di fiumi e torrenti, con l’unica frontiera situata a Storskog, nel comune di Vadsø, attraverso la quale nel 2015 oltre cinquemila rifugiati provenienti dal Medio Oriente erano arrivati a bordo di biciclette e altri mezzi di fortuna, solo un decimo di loro era effettivamente residente in Russia ed è stata avanzata l’ipotesi che la Fsb avesse provato in qualche modo a influenzare la rotta migratoria verso il Circolo polare artico. Dal 1991, anno dell’indipendenza delle repubbliche caucasiche, fino all’ingresso della Polonia nel 1999, questo è stato l’unico confine terrestre tra un Paese Nato e la Russia.
Non è quello terrestre, però, il principale motivo di interesse per l’area e il motivo lo chiarisce sempre il Maggiore Lander: «Per la Nato e per l’Unione Sovietica, il Mare di Barents e quello di Norvegia sono sempre stati l’area chiave a causa della flotta sovietica e dei sottomarini nucleari»
Cos’è cambiato da allora? «Gli sviluppi successivi alla fine della Guerra Fredda hanno contribuito al passaggio dalla difesa dei confini nazionali a un dispiego in aree esterne, ad esempio con le missioni in Iraq e Afghanistan», dice Lander. «Durante gli ultimi due anni c’è stata una maggiore attenzione verso la capacità di risposta delle Forze Armate norvegesi, che devono essere in grado di reagire rapidamente in caso di crisi e mobilitarsi in occasione di un conflitto su larga scala, mantenendo il giusto rapporto fra i militari di professione e i coscritti».
La data segnata in rosso sul calendario è quella del 5 aprile: «Quel giorno il governo rivelerà il piano sul lungo termine per la difesa nazionale, indirizzerà le questioni sulla sicurezza e metterà le basi per lo sviluppo negli anni a venire», conclude Lander.
La parte di spesa pubblica destinata alla difesa ha seguito il corso della maggior parte dei Paesi occidentali, con un decremento perdurato dalle fasi salienti della Guerra Fredda (con qualche eccezione) fino alla ripresa in coincidenza della prima invasione russa in Ucraina del 2014.
Poche settimane fa, il primo ministro Jonas Gahr Støre ha annunciato che gli investimenti sulla difesa raggiungeranno il due percento del Pil già nel 2024, tornando sopra la soglia richiesta dalla Nato dopo venticinque anni. Uno degli effetti immediati di questa accelerazione è l’irrobustimento del programma Asap che coinvolge la Norvegia, l’Unione europea e le imprese, con il governo di Oslo impegnato ad investire circa un terzo dei tre miliardi previsti per il sostegno all’industria bellica e il contributo previsto di circa 2,5 miliardi di corone nei confronti del Comando della Guardia Costiera.
Il rafforzamento della difesa, però, ha colto impreparati alcuni settori, come ad esempio quello della manutenzione: con l’arrivo di quaranta caccia F35 (e altri dodici entro il 2025), è emersa la mancanza di tecnici qualificati, che al momento la Norvegia è costretta a reclutare negli Stati Uniti, sebbene il ministro della Difesa Bjørn Arild Gram abbia promesso l’istituzione di un corso per tecnici di volo presso l’Università di Trondheim, proprio in corrispondenza con l’apertura della nuova sede dell’Accademia a Værnes.
In attesa di conoscere gli sviluppi successivi al 5 aprile, la Norvegia poteva contare al 2023 su circa diciassettemila militari in servizio e 9.840 coscritti (il trentasei per cento di loro sono donne), equivalenti al 14,73 percento dei residenti nati nel 2004, anche se questa cifra include anche giovani di altra nazionalità.
Capitolo armi: nel 2023 la Norvegia ha sostenuto economicamente la difesa ucraina per un valore di 8,8 miliardi di corone (756 milioni di euro circa), mentre a marzo è stata annunciata l’adesione all’iniziativa della Repubblica Ceca di sopperire alla carenza di munizioni con ulteriori 1,6 miliardi di corone. In termini assoluti, la Norvegia è il quinto Paese al mondo per contributi militari nei confronti di Kyjiv. Questa solidità è determinata dalla presenza di importanti aziende per la produzione di armi: Kongsberg (con sede nell’omonima città) e la produttrice di munizioni Nammo, con sede a Raufoss, sono per metà di proprietà dello Stato; infine la Chemring, con sede nel comune di Asker, lavora le materie prime destinate alla produzione di esplosivi.