Questo mese è ricorso il settantacinquesimo anniversario delle deportazioni di marzo. Novantamila persone, per il settanta per cento delle donne e bambini, furono portate via dalle loro case senza mai farvi più ritorno. Ancora oggi, la campagna è disseminata di scheletri di cascine distrutte, che imprimono ancora più vividamente nel nostro subconscio il ricordo di famiglie devastate e della Terra Gelida (il nome che gli estoni hanno dato alla Siberia) da cui solo pochi tornarono. Questo evento, come molti altri, ha incrinato ogni singola famiglia in Est Europa e con l’arrivo della guerra in Ucraina si sta esacerbando la frattura emotiva tra Est e Ovest.
Mi ci è voluto un po’ di tempo, crescendo, per capire che la Siberia esiste davvero. Per un bambino sembrava quasi un posto stregato: troppo grande, troppo freddo e troppo crudele per essere reale. Da piccoli l’avevamo quasi sempre pensata così, e giocavamo a combattere i «russi cattivi» per salvare le nostre famiglie dai vagoni bestiame e da quella Siberia semi-mitica. Tutti hanno qualcuno legato a quel posto: che sia una nonna che c’è nata o un nonno che vi è stato sepolto. Molti sono tornati, molti altri no.
Chi è tornato non ha avuto molto conforto: le loro case erano state distrutte o occupate da stranieri. La natura implacabile dell’occupazione sovietica non gli ha mai permesso di dimenticare che, sotto lo strato di apparente quotidianità ordinaria, strisciava latente quel pericolo costante della Terra Gelida. Fino agli anni Novanta i sopravvissuti erano costretti a dimenticare, mentre cercavano di affrontare gli strascichi delle loro esperienze e le repressioni dell’Unione. I ragazzi di un’intera generazione sono stati costretti a portarsi dietro questo dolore mentre continuavano a vivere in una società che non gli avrebbe mai permesso di guarire.
Ho iniziato a leggere quotidiani per la prima volta ad agosto 2008: avevo cinque anni. Ogni giorno aprivo un giornale e guardavo le foto più recenti delle case bombardate in Georgia. L’ Europa occidentale ne è rimasta scossa fino alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi, mentre a est è stata la conferma che la nostra storia deve ancora essere scritta e che la Terra Gelida non è mai scomparsa davvero. In quei momenti, per i nuovi membri orientali dell’Unione europea ha pesato meno il dover preparare i propri eserciti a una guerra che vedere Silvio Berlusconi e gli altri leader occidentali fare festa con l’allora tanto stimata élite politica russa.
Da allora sono passati più di dieci anni e, sebbene anche l’Europa occidentale abbia iniziato a percepire la minaccia russa, la situazione è ancora tragicomica per gli abitanti dell’Est Europa cresciuti sotto lo spettro della Terra Gelida. Magari non è evidente, ma è dal 2014 che l’Europa è spaccata a metà da una crisi di fiducia tra Est e Ovest. Le regioni orientali hanno seguito le strategie occidentali nel 2008 e nel 2014 (gli anni delle invasioni russe in Georgia e in Ucraina), e in cambio sono rimaste con nient’altro che cenere. E se l’Europa occidentale potrebbe prendere in considerazione un compromesso per porre fine alla guerra, è improbabile che l’Europa orientale segua di nuovo le loro indicazioni. In tal caso, sarà il ricordo della Terra Fredda a dettare la fine di questa guerra.
I Paesi baltici stanno vivendo, in quest’epoca, il periodo di indipendenza più duraturo della loro storia. La Nato e l’Unione europea ci hanno garantito prosperità e sicurezza senza precedenti, ma so che passerà ancora molto tempo prima che la mia gente riuscirà a lasciarsi alle spalle il ricordo della Terra Gelida.
Per quanto l’Europa occidentale possa voler dimenticare la guerra e tornare alla normalità con i russi, i ricordi resteranno anche quando le relazioni diplomatiche si saranno ricucite, siano i ricordi quelli dei bambini estoni che giocano alla guerra contro i soldati russi negli anni Quaranta, o dei bambini ucraini strappati via dalla loro casa oggi.