Il cinquanta per cento dei cittadini sardi non ha votato. E non ha votato per un evento che pure toccava in modo immediato e diretto il loro interesse di cittadini dell’isola: l’elezione del Presidente della Regione. Questa avrebbe dovuto essere la notizia – “base” che i media di carta e di voce avrebbero dovuto divulgare in modo visibile e insistente. Non è avvenuto, fino al punto che la giornalista, che conduceva martedì 27 la rassegna stampa mattutina su Radio 3, è caduta dalle nuvole quando un ascoltatore le ha fatto notare quel silenzio: «Io faccio la rassegna stampa e sui giornali non c’è nulla», ha risposto con candida ingenuità.
Invece, i media hanno dato grande spazio, ovviamente, al derby “Campo largo” contro “partiti di governo”, risoltosi, come è noto, con un minimo scarto di voti, e sottolineando le reciproche percentuali: entrambe, approssimativamente, intorno al quarantacinque per cento. Una volta trascurato mediaticamente l’astensionismo, quel quarantacinque per cento (approssimativo), se calcolato senza il “non detto”, e cioè sul cento per cento, esprimerebbe davvero una competizione politicamente assai significativa. Ma quella percentuale va calcolata al netto del cinquanta per cento dell’astensione e, di conseguenza, quel quarantacinque per cento vale effettivamente intorno al ventitré per cento.
Quindi i duellanti, vincitori e vinti, valgono ciascuno più o meno un quarto del potenziale elettorato. Eppure, governano o fanno opposizione e aspirano a governare. Il tutto segnato da canti di vittoria, da prese di distanza e da polemiche interne, alcune visibili altre tacite.
Manca, invece, la vera domanda che i partiti – tutti e non solo quelli del derby – dovrebbero farsi e facendosela meditare: perché la gente, le persone, i cittadini non vanno a votare (al di là di quello che è l’astensionismo fisiologico)? Perché questi partiti non attraggono e non sollecitano l’interesse di chi ha il diritto/dovere di votare? Eppure, si dice che la nostra sia una democrazia rappresentativa, dal che consegue che ogni istituzione debba legittimarsi, direttamente o indirettamente e almeno in larga misura, attraverso il voto popolare.
Da tempo ormai non accade più, eppure i nostri protagonisti politici sono, come si dice mediaticamente, sempre in campagna elettorale. Già questo detto mediatico dovrebbe aprire una prima riflessione, che è la seguente. Se la spiegazione è l’essere in campagna elettorale, allora questa sta significare due cose: la prima è che la campagna elettorale stimola una comunicazione politica particolarmente eccitante per il destinatario di riferimento; la seconda, assai grave, che il comunicatore ritiene che il destinatario sia una persona facile da catturare con parole eccitanti e che quindi non abbia una testa per riflettere e ragionare. Dopodiché si spiega l’alto astensionismo, che ormai da tempo, anche se in misura un po’ minore, precede quello sardo. In altre parole, il cittadino è meno suggestionabile di quanto la classe politica odierna (e non solo) ritenga. E perciò non vota.
Qui si apre una seconda riflessione. Se la classe politica operante in una democrazia rappresentativa non affronta radicalmente la questione dell’astensionismo, che mina alla base la sua stessa legittimazione, ne segue, e del tutto logicamente, che la “legittimazione rappresentativa” non sia più da considerare come fondamento dalla sua esistenza. E qui si apre un’ulteriore conseguenza, sempre sul piano logico. Se la legittimazione non è più considerata come fondamento per la classe politica, ne segue che il potere che essa è chiamata a esercitare nei luoghi istituzionali di cui è formato l’ordinamento dello Stato di diritto, non è più un potere cosiddetto “funzionale”; significa che esso è divenuto un potere di “puro fatto”. E i poteri di “puro fatto” non operano seguendo le regole proprie di un sistema giuridico, ma negoziano equilibri che poi si formalizzano in norme estemporanee che durano quanto durano gli equilibri. E questo è il fenomeno definito con il termine governance (fenomeno che caratterizza l’intera pratica politica europea); termine, che ha sostituito, a tutti i livelli, istituzionale e mediatici, il termine “ordinamento”.
Tuttavia, non mi risulta che si sia mai spiegato e divulgato il significato politico-giuridico di tale sostituzione, che, pur essendo concettuale, è stata praticata come una semplice moda terminologica. La governance, infatti, dal punto di vista epistemologico, è tutto il contrario del concetto di “ordinamento” e funziona in modo tale da colpire alla radice il principio giuridico e politico che regge lo “Stato di diritto”.
Utilizzare, senza farsi e porre domande, il termine governance significa allora che i diversi poteri – presenti a tutti i livelli nell’ambiente sociale – prescindano da quell’accreditamento che l’ordinamento definisce “legittimazione”, ma si fondino sull’essere e sull’operare in virtù della forza che essi riescono ad esprimere puramente “in fatto”.
Ne segue che lo “Stato di diritto” si trasforma in un ambiente “complesso” – termine che ha un significato scientifico molto preciso, che non è sinonimo di “complicato” –, nel quale le entità che sono presenti operano secondo la logica statica di una permanente negoziazione di equilibri, capaci di conservarne la sopravvivenza. Le idee politiche, quelle culturalmente costruite, sono sostitute da spot linguistici destinati a garantire il galleggiamento secondo gli equilibri che danno consistenza alla “complessità”.
I media, che in uno “Stato di diritto” hanno la funzione di dar vita all’opinione pubblica – di mettere in forma, cioè, un pensiero critico capace di richiamare l’attenzione del cittadino intorno all’esercizio del potere di governo (in tutte le diverse sedi in cui esso si esplica) – nel mondo della governance divengono strumenti per il galleggiamento dei diversi poteri di fatto, dovendo galleggiare essi stessi. E la competizione politica, propria di una democrazia rappresentativa, diviene un mero “gioco delle parti” mediaticamente corroborato.