Si è di fatto concluso il primo round delle procedure, in parte previste dall’articolo diciassette del Trattato sull’Unione e in parte immaginate unilateralmente dai gruppi politici e dai partiti europei prescindendo dall’eventuale accordo del Consiglio europeo, per la nomina/elezione del(la) presidente della Commissione europea sulla base delle elezioni europee. Prima di arrivare all’attuale round vale la pena di ricordare che, pur spettando al Consiglio europeo a maggioranza qualificata il potere di nomina del(la) presidente della Commissione europea, i gruppi politici e poi i partiti europei seguirono nell’autunno 2013 e con un entusiasmo degno di miglior causa l’idea – una «falsa, buona idea» scrisse Le Monde – dell’allora presidente del Parlamento europeo Martin Schulz di far precedere la decisione dei capi di Stato e di governo da una sorta di premierato europeo ante litteram con l’indicazione europea di candidati di punta nella traduzione dal tedesco di Martin Schulz della parola Spitzenkandidaten.
Poiché nel Consiglio europeo i Capi di Stato e di governo del Partito popolare europeo erano vicini alla maggioranza (tredici su ventotto), Martin Schulz era convinto che sarebbe avvenuto il sorpasso elettorale dei socialisti sui popolari e suggerì dunque che il Consiglio europeo avrebbe dovuto piegarsi alla apparente volontà delle elettrici e degli elettori europei e nominare il candidato di punta del partito europeo di maggioranza relativa.
Cosicché il Ppe scelse a Dublino il lussemburghese Jean-Claude Juncker che vinse sul francese Michel Barnier (trecentottantaquattro su duecentoquarantacinque), non contando le centosettantatré astensioni e gli assenti – e quella nomina fu la decisione imposta da Angela Merkel – guardandosi bene Jean-Claude Juncker dal metterci la faccia ed evitando la conta sul suo nome alle elezioni europee, i socialisti – rafforzati dall’adesione del Partito democratico al partito europeo – incoronarono a Roma per acclamazione Martin Schulz unico candidato alla candidatura, i liberali il fiammingo Guy Verhofstadt, i verdi la coppia gender balance Joseph Bové e Ska Keller e le sinistre il greco Alexis Tspiras che, come Juncker, si guardò bene dal metterci la faccia nelle elezioni europee in Grecia.
Le elezioni europee nel maggio 2014 – con tredici reti televisive che si rifiutarono di trasmettere il dibattito fra i candidati di punta e quindici paesi su ventotto dove si recò alle urne molto meno del cinquanta per cento degli elettori con punte al di sotto del venti per cento – non sorrisero a Martin Schulz e ai socialisti europei, nonostante l’exploit del Pd di Matteo Renzi, che furono distaccati di ben quaranta seggi dal Ppe per cui la nomina di Jean-Claude Juncker, battezzato da Frau Merkel, avvenne nel Consiglio europeo senza discussione malgrado la piroetta parlamentare di Martin Schulz che si dimise temporaneamente da presidente del Parlamento europeo per tornare a sedersi sulla poltrona di capo-gruppo al fine di partecipare a inutili negoziati inter-istituzionali e riprendere poi lo scranno di presidente del Pe con l’unico caso di un doppio mandato nella storia dell’Assemblea.
Le elezioni europee del 2014 sorrisero anche ai conservatori egemonizzati dai britannici, dai polacchi del PiS e dalla crescente Alternative für Deutschland con l’arrivo fra i non-iscritti di diciassette pentastellati ma popolari e socialisti mantennero insieme la maggioranza assoluta dell’assemblea confermando la storica grande coalizione.
Essendo storia relativamente più recente sappiamo che le elezioni europee nel 2019 segnarono una netta sconfitta di popolari e socialisti che persero globalmente ottanta seggi e la maggioranza assoluta nell’assemblea, la crescita di liberali e verdi, l’exploit di Identità e Democrazia di Marine Le Pen e Matteo Salvini, il flop dei conservatori passati da terzo a sesto gruppo dell’assemblea e l’ulteriore crescita dei pentastellati alleati al governo in Italia con la Lega.
Sappiamo anche che il metodo dei candidati di punta fallì miseramente per l’incapacità dei gruppi politici di trovare un’intesa da imporre o cercare di imporre al Consiglio europeo un nome condiviso al di fuori dell’improbabile candidatura dell’improbabile bavarese Manfred Weber, e per la forza di imposizione di Frau Merkel che concordò con Emmanuel Macron sulla litigiosa coppia di Ursula von der Leyen togliendola dalla scomoda e discussa posizione di ministro della difesa e Charles Michel con l’unica fortunata occasione europea di portare alla presidenza del PE David Sassoli.
La storia recente ci ricorda che Ursula von der Leyen fu eletta dal Parlamento europeo nel luglio 2019 con la risicata maggioranza di nove voti in più della maggioranza assoluta di trecentosettantasei parlamentari sapendo che ella disponeva sulla carta di quattrocentoquarantaquattro voti e che le copiose assenze fra socialisti, liberali e fors’anche popolari furono compensate dal voto insperato dei pentastellati coerenti con il favore di Giuseppe Conte nel Consiglio europeo e in netto dissenso con gli alleati della Lega.
Quattro mesi dopo, la virata ecologica di Ursula von der Leyen sul Patto Verde Europeo – frutto di un accordo dì programma fra tutta la Commissione e la coalizione PPE-S&D-Renew Europe e Verdi e non della cosiddetta ideologia ambientalista di Frans Timmermans – produsse la “maggioranza Ursula” e cioè un campo largo, per usare un’espressione alla moda oggi in Italia, che ha funzionato fino a quando una parte dei popolari ha deciso di seguire le pulsioni populiste dei sondaggi d’opinione e tentare di consolidare una inedita alleanza con i conservatori guidati da Fratelli d’Italia, dal PiS polacco e da Vox spagnolo simile a quella che è al governo in Italia, Svezia, Finlandia e Repubblica Ceca.
Cosicché, la realizzazione del Patto Verde Europeo è stata recentemente frenata dalla nuova alleanza di centro-destra, i nuovi equilibri politici nel Parlamento europeo hanno trovato sponde favorevoli nell’immobilismo del Consiglio non solo sulla transizione ecologica ma anche sulle questioni sociali e sulle politiche migratorie e, last but not least, l’europeismo parlamentare inizialmente maggioritario è evaporato nel voto sulla riforma del Trattato di Lisbona del 22 novembre quando i due terzi del PPE si sono uniti al sovranismo di conservatori ed estrema destra e la strada della revisione appare ora bloccata fra i governi che sono ostili anche all’idea di infilarsi nel labirinto da loro stessi hanno inventato con il metodo della cosiddetta Convenzione dopo le cui conclusioni prevale il principio confederale secondo cui gli Stati sono “i padroni dei Trattati”.
Ursula von der Leyen è perfettamente cosciente del fatto che il rinnovo del suo mandato di presidente della Commissione fino al 2029 deve passare attraverso strette forche caudine prima nel Consiglio europeo dove la sua scelta sorprendente di avere l’imprimatur della Cdu e poi la nomina a Spitzekandidat del Ppe ha suscitato malumori fra i governi ma anche nella sua stessa famiglia politica europea quando al Congresso di Bucarest della scorsa settimana ha ottenuto quattrocento voti su settecentotrentasette aventi diritto al voto con molti assenti, molti astenuti e ottantanove contrari, il che avrà un effetto nel voto di elezione al Parlamento europeo il 17 luglio quando dovrà ottenere una maggioranza assoluta di trecentosessantuno voti mettendo insieme popolari, socialisti e liberali e cioè una nuova maggioranza europeista che uscirà tuttavia indebolita dalle elezioni europee.
Le forche caudine parlamentari hanno spinto Ursula von der Leyen sulla via perigliosa di un accordo con Giorgia Meloni e i futuri parlamentari di Fratelli d’Italia sposando la causa della campagna populista contro la cosiddetta “ideologia ambientalista”, tradendo il programma del Patto Verde Europeo su cui si era formata la sua maggioranza nel novembre 2019, violando i trattati e le regole interne della Commissione con gli inattesi imprimatur ai fallimentari memorandum di intesa del governo italiano con la Tunisia, l’Albania e l’Egitto, accelerando le procedure di adesione dell’Ucraina e fuggendo in avanti in modo confuso e inconcludente sulla difesa europea.
Questa campagna a metà elettorale (sapendo che Ursula von der Leyen come fu il caso del suo predecessore Jean-Claude Juncker, non si candiderà al Parlamento europeo) potrebbe apparire sorprendente per chi non conosce i meandri della vita politica europea e potrebbe provocare un caos istituzionale dopo le elezioni europee. Speriamo che al caos si applichi il principio positivo che da esso – come “spazio aperto” – possa nascere un nuovo ordine delle cose europee. Per far questo appare tuttavia indispensabile avviare una fase costituente e che in questa fase ci sia fin dalle origini un’alleanza fra una maggioranza europeista nel Parlamento europeo e la nuova Commissione così come fu nel 2019 con l’accordo sul Patto Verde Europeo.