I disastri sono entrati nella complessa dinamica storica, economica e demografica che ha segnato i luoghi di molte regioni italiane. Essi mettono di fronte a un prima e a un dopo, sempre come frattura e lacerazione. La riflessione antropologica ed etnografica indica gli elementi quasi sotterranei che nelle società tradizionali agiscono sul radicamento, plasmano una cultura comune, formano le identità. Dell’importanza dei disastri nella formazione della mentalità, delle tradizioni popolari e del rapporto con i luoghi la Calabria è un paradigma ineludibile. Sarebbero possibili una storia, un’antropologia, un romanzo della regione a partire dalla geografia dei paesi abbandonati. Insieme ai terremoti, le invasioni, i lunghi periodi di siccità, le carestie e le difficoltà di reperire acqua potabile, le alluvioni rovinose e le frane, i disboscamenti incontrollati, la discesa degli abitanti dei paesi dell’interno verso le marine (e la conseguente costruzione dei paesi doppi lungo le coste) hanno interagito per costruire la realtà di una terra mobile, precaria, provvisoria, incompiuta.
[…]
Dalla primavera del 2005 a quella del 2009 sono stato sui luoghi di questi terremoti (Ferruzzano, i paesi della Locride e dell’Aspromonte, Zammarò, Parghelia, Martorano Lombardo, e i paesi del Vibonese e poi Reggio e Messina) che hanno devastato la Calabria e la provincia di Messina. Ho osservato tanti ritorni, ho letto cronache e studi, ho partecipato a incontri e convegni.
A San Gregorio d’Ippona, l’8 settembre 2005, per iniziativa dell’amministrazione comunale viene apposta un lapide con i nomi degli scomparsi. Iniziative di commemorazione, giornate di studio, celebrazioni di messe si sono svolte in altri luoghi colpiti dal sisma, come Favelloni, frazione di Cessaniti, e Stefanaconi, dove morirono 66 persone. A Zungri è esposta una mostra permanente, voluta e organizzata da Francesco Pugliese. L’8 e il 9 settembre del 2005 a Parghelia si è svolto il Convegno di studi (con una mostra fotografica) su La Calabria e i terremoti (a cura del Centro Studi Storici e Sociali del Comune di Parghelia e dell’Università della Calabria).
A Ferruzzano l’amministrazione comunale il 23 ottobre del 2007 ha inaugurato una mostra fotografica, e collocata una stele a tre livelli (tre pietre informi di diversa dimensione, che simboleggiano le tre frazioni) in ricordo di quel terribile flagello e di una storia comune dei luoghi abbandonati e rifondati. Nel paese antico è stata celebrata una messa, in presenza del vescovo mons. Giancarlo Bregantini. Ancora un convegno di studi sul terremoto di quell’area si era tenuto, qualche giorno prima, nel municipio di San Luca e sempre a cura dell’Università della Calabria. E diverse sono state le conferenze e le riflessioni sul terremoto che distrusse Reggio, Messina e le rispettive province. Tutto parla ancora del terremoto: il paesaggio, i modi di dire, i culti, la religione, i paesi abbandonati, i paesi ricostruiti. La memoria della gente. Una storia spezzata viene collegata con operazioni di ricordo e di cordoglio.
Tutta la comunità – il municipio, la scuola materna e la media, la farmacia, la chiesa – vuole lasciare alle spalle un passato di dispersione e nello stesso tempo vuole ricordare. La gente va e viene da Ferruzzano superiore, dove coltiva la vite e gli ulivi. Di recente è stata allestita una mostra sulla civiltà contadina ed è stato aperto un chiosco dalla cooperativa «Borgo Vivo». L’idea è quella di incoraggiare un turismo che porti a visitare gli antichi palmenti, il bosco in località Rudina, le tante grotte. Molte coppie salgono a sposarsi nel vecchio abitato. «Il cuore è rimasto lì», mi ha detto, quando l’ho intervistata, Marisa Romeo, sindaco del paese e docente nella locale scuola media. C’è chi pensa alla produzione vinicola degli antichi vitigni, chi a promuovere prodotti della pastorizia e dell’artigianato, chi ancora ad accogliere turisti o emigrati nelle vecchie case. In passato, nei periodi di siccità, quando non pioveva per mesi, i contadini portavano le statue di San Giuseppe e della Madonna in processione verso il mare: si battevano con i pugni il petto, si inginocchiavano, si toglievano il cappello e pregavano.
Oggi si è affermato un pellegrinaggio in direzione inversa e per altre ragioni. Il primo venerdì di agosto, di sera, San Giuseppe viene portato in processione a Ferruzzano Marina. Il sabato viene trasferito a contrada Saccuti e anche qui portato in processione. La domenica si svolge un pellegrinaggio da Saccuti all’antico Ferruzzano, con una processione conclusiva nelle antiche strade. I nuovi pellegrinaggi raccontano il bisogno delle persone di riappropriarsi di luoghi separati e frantumati, abbandonati e rifondati.
E tuttavia non c’è coerenza tra memoria sotterranea, più o meno diffusa e condivisa, memoria volontaria e alimentata, almeno da alcuni, e azioni e pratiche per evitare che il passato non si ripeta. Tutto parla del terremoto, ma nessuno – istituzioni regionali e locali, élite e popolazioni – prende iniziative adeguate per prevenire danni, sanare e curare il territorio, scongiurare catastrofi. Il terremoto non si prevede, bisogna conviverci, ma i suoi effetti potrebbero essere ridotti al minimo. Paesaggi devastati dal cemento, case incompiute, pilastri svettanti al cielo in aree altamente sismiche, interi borghi nati senza progetto e piano di fabbricazione, disordine edilizio, mancanza di qualsiasi educazione al sisma, assenza di centri studi sulle catastrofi, rendono sterili e di maniera tante iniziative.
La Calabria è la terra dove la parola memoria viene evocata e banalizzata e, forse, è quella in cui si ricorda di meno. I paesi sono prima abbandonati, spopolati e poi quasi cancellati anche dalla memoria. Rimossi come qualcosa di ingombrante. Il ricordo del terremoto non si presta a retoriche localistiche, richiede riflessioni su una storia dolorosa, su ferite ancora aperte, su luci e ombre delle nostre comunità; ha bisogno di pietas ma anche di uno sguardo prospettico e di progettualità.
Tratto da “Terra inquieta” (Rubbettino), di Vito Teti, pp. 564, 28€