Negli ultimi anni, quelli della disinformazione usata come arma di propaganda, del colonialismo digitale delle piattaforme e delle violazioni endemiche alla nostra privacy, Internet sembra avere smarrito una componente fondamentale: quella umana.
A differenza di altre tecnologie che ci hanno cambiato la vita, come la lampadina o il motore a scoppio, la rete non è mai stata soltanto uno strumento. È una parte integrante della società, un’azione relazionale che mettiamo in pratica quotidianamente: ha pervaso ogni aspetto della nostra esistenza, come un liquido amniotico in cui galleggiamo senza mai percepirlo davvero. Internet è liquida, e noi siamo porosi. È acqua, e quindi «specchio»: riflette, plasma e si distorce in base all’utilizzo che decidiamo di farne. La rete, in una parola, siamo noi.
Il problema è capire quanto siamo davvero in grado di governarla. Di usarla, e di non farci usare. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, la privatizzazione prima e lo sfruttamento commerciale poi hanno finito per rendere Internet sempre più simile a un software monetizzato, le cui componenti agiscono in modo sincrono per generare un risultato economico-finanziario ben preciso. Online c’è sempre meno spazio per l’errore, per la scoperta, per il caso, per l’avventura; la maggior parte delle nostre «scelte» viene in realtà eterodiretta dai modelli di business dei servizi che adoperiamo.
In questo processo, Internet si è deumanizzata. Le nostre azioni in rete hanno oggi un peso specifico minore rispetto a un tempo e, imbrigliate nell’economia delle piattaforme, somigliano più a microtransazioni che a tentativi di costruire comunità. Ogni volta che effettuiamo una ricerca, inviamo un’e-mail, pubblichiamo una story o condividiamo quello che pensiamo su un social, stiamo contribuendo a rendere le grandi aziende tecnologiche più redditizie.
Vincolati come siamo a rigidissimi termini di servizio, agiamo tra i vincoli strutturali e legali delle piattaforme, senza però avere alcuna possibilità di co-crearle, né di plasmarle in base alle nostre necessità. Negli ultimi quindici anni, la «co-creazione», processo che pure giocò un ruolo fondamentale nella nascita stessa della rete, è stata relegata da modello industriale tecnologico a sottoprodotto. Qualcosa da combattere, da disgregare, da annientare.
Del resto, «il termine co-creazione presuppone un senso di proprietà collettiva, un percorso congiunto di scoperta, un abbandono dell’ego», si legge in Collective Wisdom, libro scritto da un gruppo di ricercatori del MIT. L’Internet di oggi, invece, tende a premiare altro: la sottrazione della ownership di quello che produciamo sui social; la «scoperta», ma solo se è funzionale al mantenimento della nostra attenzione; l’ego come perno e motore delle azioni che compiamo.
Tolte alcune rare eccezioni – come i meme, che nascono e si evolvono grazie allo sforzo comune di tanti creator diversi, o come Wikipedia, l’enciclopedia online frutto del lavoro di aggiornamento e revisione costante da parte di migliaia di «editor» che lavorano pro bono per aggiornare lemmi, ricostruzioni storiche e definizioni scientifiche –, la rete non premia né incentiva l’intelligenza collettiva dei cittadini che la abitano.
Nel senso più ampio, Internet ha perso la sua vocazione originaria di strumento collaborativo. La disumanizzazione cui abbiamo assistito in questi anni, alimentata da motivazioni economiche, è diventata inevitabile. Se un tempo i bot erano l’anomalia, macchine misteriose di cui invaghirsi, oggi sono la norma: nel 2026, secondo un rapporto realizzato dall’agenzia europea Europol, oltre il 90% dei contenuti che vediamo online potrebbe essere generato artificialmente, in tutto o in parte. Immagini, video, testi, frammenti audio che riempiono pagine, siti e app senza alcun intervento umano: uno scenario impensabile fino a pochi anni fa, prima dell’esplosione degli strumenti di intelligenza artificiale generativa che stanno cambiando in modo indelebile la diffusione e il consumo di informazione. I bot che un tempo venivano usati per automatizzare processi noiosi o ripetitivi, o per mascherare la promozione commerciale di e-book sui cavalli, sono sempre più diffusi. Secondo alcune stime, solo su X, gli account automatici viaggiano tra il 5% e il 13% degli utenti totali.
È importante distinguere, ovviamente. Ovunque esistono bot «buoni» (ovvero utili per automatizzare delle azioni, che ci aiutano a risparmiare tempo, oppure per garantire sicurezza e fornire assistenza) e bot «cattivi» (utilizzati per veicolare spam, gonfiare i dati di traffico o di following, estrarre dati o generare disinformazione). Ma la strada sembra quella di un’Internet sempre più umanoide e sempre meno umana. Pensiamo ai CAPTCHA, i fastidiosi ma utili test visuali che dobbiamo completare per garantire la nostra «umanità» agli occhi dei server. In molti casi i loro obiettivi sono nobili, certo: filtrare lo spam, bloccare il web crawling non autorizzato, prevenire commenti e recensioni false, evitare registrazioni di account automatizzati, verificare l’attendibilità di una transazione. Il punto è che mentre li compiliamo stiamo allenando sistemi complessi di intelligenza artificiale.
Quando ci viene chiesto di identificare «tutte le immagini contenenti semafori» o «automobili» tra quelle proposte, infatti, stiamo allenando dei modelli algoritmici sempre più complessi e commercializzabili. Questi dati servono poi a migliorare algoritmi di intelligenza artificiale, i quali vengono utilizzati per erogare servizi sempre più remunerativi. Paradossale, no? La progressiva automatizzazione di Internet ci trasforma in corpi di dati al servizio degli ingranaggi di monetizzazione: disumanizzati, non abbiamo più modo di evadere da questo processo. E intanto anche i CAPTCHA stanno diventando sempre più articolati, segno che le macchine sono sempre più intelligenti e in grado di completare operazioni complesse in pochi secondi.
Infatti, i bot alimentati dall’intelligenza artificiale stanno diventando davvero bravi a superarli, con un’accuratezza che già oggi è fino al 15% superiore a quella degli esseri umani. Il nostro livello di competenza non basta più nemmeno per essere impiegati modello del turco meccanico. In questo panorama cangiante, non sarà più sufficiente «dichiararsi umani»; dovremo essere in grado di dimostrarlo.
Di rivendicare e ripensare, prima di tutto, le nostre identità online, trasformate dalla privatizzazione, dalla commercializzazione e dalla piattaformizzazione in un asset economico di Internet. Ma cosa significa – e cosa significherà – avere un’identità umana nel futuro della rete? Se vogliamo che parole come «network» o «social» abbiano ancora senso tra cinque o dieci anni, o che riacquisiscano un senso diverso da quello attuale, dobbiamo cercare di rispondere a questa domanda. Perché è solo dal «noi», o almeno da una nuova consapevolezza di cosa significhi «noi», che possiamo cominciare a immaginare un’alternativa.