Amore e odio, passione e scontento: il rapporto con il cibo è spesso idilliaco, molte volte causa di malesseri e incomprensioni. In un Paese che in larga parte si ritiene portatore dell’idea e della sostanza della buona cucina, è impossibile ignorare quali sono i “lati oscuri” di una cultura del cibo che spinge sempre di più verso gli eccessi, complici modelli e standard sociali spesso irraggiungibili. Gli ultimi dati condivisi dal Ministero della Salute a marzo 2024 mostrano come gli accessi alle cure per disturbi della nutrizione e dell’alimentazione siano aumentati quasi del quaranta per cento.
I disturbi della nutrizione e dell’alimentazione (Dna), come l’anoressia, la bulimia nervosa e il binge eating (disturbo da alimentazione incontrollata) stanno diventando temi di sanità pubblica di crescente importanza, che possono essere associati ad altre condizioni psicopatologiche (disturbi dell’umore, d’ansia, ossessivo-compulsivi, di personalità, abuso di sostanze).
In Italia sono più di tre milioni le persone che soffrono di Dna, un dato peggiorato dalla pandemia di Covid-19, che ha portato un incremento dei casi stimato di almeno il trenta-trentacinque per cento. I numeri si alzano e l’età si abbassa: sono le fasce d’età più giovani che stanno sperimentando un aumento dell’incidenza di questi disturbi, complice il momento di vita più fragile e influenzabile, l’utilizzo più massiccio dei social media e l’impatto che il lockdown ha avuto sulla socialità.
Anche Unobravo, il servizio di psicologia online, ha presentato proprio in queste settimane l’Osservatorio Unobravo sui Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione in Italia, condotto su un campione di sedicimila persone, parte della base utenti della piattaforma, dislocata su tutto il territorio italiano: dai dati presentati emerge che il 64,5 per cento dei soggetti che potrebbero avere un Dna ha meno di 33 anni, con la maggioranza dei casi che si concentra nella fascia tra i 25 e i 32 anni, che da sola rappresenta il 44,5 per cento del totale, e con gli under 20 che comunque si aggiudicano un venti per cento della fetta.
Oltre un quarto (21,6 per cento) ha invece tra i 33 e i 39 anni, mentre si fermano tutte al di sotto del dieci per cento le fasce over 40.
Il genere più colpito rimane quello femminile, con uno schiacciante 79,4 per cento di rispondenti donne che afferma di non avere un buon rapporto con il cibo e il proprio corpo. Le donne ricercano inoltre maggiormente un supporto psicologico per episodi di possibile binge eating disorder che, a differenza di anoressia e bulimia, è un disturbo ancora poco conosciuto e trattato che si verifica in momenti molto veloci in cui il cibo viene ingerito in grandi quantità, perdendo il controllo su sé stessi e su cosa si mangia.
Tra le persone che esplicitano questo malessere (che rappresentano il 28,1 per cento del totale degli utenti coinvolti nell’analisi) l’82,5 per cento è composto da donne, con un 45 per cento che ha tra i 25 e i 32 anni.
Se invece si considera la provenienza, più della metà degli individui alla ricerca di supporto psicologico per possibili Dna è concentrata nelle regioni del Nord Italia (58,1 per cento), mentre il 22,1 per cento vive in Centro Italia e il 19,8 per cento nel Sud e nelle isole maggiori.
Un dato positivo – se così lo si può definire – è sicuramente la maggior consapevolezza che comporta anche il solo riconoscere di avere un problema con il proprio corpo e le abitudini alimentari: una presa di coscienza non scontata, che ha impiegato decenni per affermarsi sia a livello clinico che personale. La strada da percorrere però è ancora lunga e il passo successivo all’ammettere di avere un problema è aprirsi abbastanza per farsi aiutare.
Sempre dallo studio Unobravo emerge però che solo il 9,3 per cento degli intervistati sostiene di avere già una diagnosi di disturbo del comportamento alimentare, mentre il restante 90,7 per cento potrebbe essere alla ricerca di supporto psicologico per la prima volta. Fondamentale, quindi, favorire informazione e conoscenza sul problema, ma anche quali potrebbero essere i percorsi più efficaci per risolverlo.
Si può, infatti, fare di più: in un Paese come l’Italia, dove la comunicazione, lo storytelling e il racconto del buon cibo è al centro di azioni delle aziende, delle attività dei media e del dibattito pubblico in generale, non si può trascurare la promozione non solo del prodotto in sé, ma anche della possibilità di vivere il proprio rapporto con l’alimentazione in modo sano e positivo. Un impegno soprattutto per le generazioni più giovani, che si stanno affacciando per la prima volta verso questa consapevolezza, e che necessitano supporto nel costruire il proprio percorso verso una relazione con il cibo sana e informata.