In extremis, per giustificare il voto contrario della maggioranza – mai stato in discussione – alla mozione di sfiducia presentata alla Camera, l’ufficio stampa di Matteo Salvini ha diramato martedì un comunicato in cui sostiene che «i propositi di collaborazione puramente politica del 2017 tra la Lega e Russia Unita non hanno più valore dopo l’invasione dell’Ucraina».
A parte il fatto che l’Ucraina nel 2017 era già stata invasa e la Crimea già annessa dalla Russia e il 6 marzo 2022 (i carri armati assediavano Kyjiv e la sorte di Volodymyr Zelensky sembrava segnata) quell’accordo di cosiddetta collaborazione si era automaticamente rinnovato, il leader leghista non ha fatto quel che era richiesto e soprattutto dovuto: rompere quel patto in modo formale, con lo stesso crisma di ufficialità con cui ne aveva strombazzato la stipula ai tempi in cui voleva cedere «due Mattarella per mezzo Putin». Così ha inequivocabilmente dimostrato che quel passo non voleva o non poteva farlo.
Le parole successive di amicizia per l’Ucraina, amore per la pace e speranza nella vittoria di Trump hanno semplicemente confermato il suo allineamento ai desiderata del Cremlino. Del resto, non esistono putiniani: sono tutti pacifisti.
Per il capo della Lega nascondere l’evidenza dietro i voti in Parlamento coerenti con la linea atlantica e europea è doppiamente ridicolo. In primo luogo perché il sostegno italiano all’Ucraina è sempre più equivoco e declamatorio, in secondo luogo perché questo è un alibi che potrebbe fornire pure un putiniano più ufficiale e potente di Salvini, come Victor Orbán, che strepitando e ricattando non ha comunque mai impedito finora i finanziamenti europei all’Ucraina.
Salvini ha anche cercato di relativizzare lo scandalo del gemellaggio della Lega con Russia Unita, sostenendo che tutti i governi italiani facevano negli stessi anni accordi con Mosca e quindi che male c’era se oltre allo Stato, in questa orgia di amorosi sensi per il Cremlino, cercassero spazio nel lettone di Putin anche i partiti. Obiezione puerile, in senso politico, ma pertinente in senso storico, perché uno dei tanti rimossi e interdetti della vicenda politica italiana riguarda proprio quello che potremmo chiamare il “putinismo democratico”, cioè il credito che anche dopo il 2014, e con la Russia già sotto sanzioni, Putin ha continuato a riscuotere presso partiti e personalità nominalmente non populiste o sovraniste. Un credito di gran lunga eccedente le normali relazioni diplomatiche e commerciali con un regime canaglia.
Tra le altre cose la spericolata strategia dell’amicizia con Mosca è stata suggellata da una pioggia generosa di onorificenze conferite dopo il 2014 – cioè dopo l’inizio delle sanzioni – a una trentina di gerarchi del regime putiniano: ministri, diplomatici, oligarchi. Tra queste, una delle prime è stata quella elargita a Dmitry Peskov, il portavoce del Cremlino, il 4 ottobre 2017, pochi mesi dopo l’inizio della collaborazione tra Lega e Russia Unita.
Il punto più alto (cioè più basso) di questa strategia è stato raggiunto durante il governo Conte II (qui il dossier curato da Giulio Manfredi sul sito di Radicali italiani). Dopo il 24 febbraio 2022, sono state revocate alcune di queste onorificenze, ma meno della metà, e soprattutto è rimasta immune dal repulisti la più scandalosa di tutte: appunto quella di Peskov, la voce del padrone.
Non che la stampa italiana, a parte questo giornale, ne abbia parlato molto, a riprova di un certo imbarazzo. Però la questione non è né ignota, né ignorata visto che a Palazzo Chigi il 4 ottobre 2023 (nel sesto anniversario del conferimento dell’onorificenza) si è tenuto sul tema un incontro tra Nicola Guerzoni, capo di Gabinetto del sottosegretario Alfredo Mantovano, e una delegazione dei firmatari dell’appello lanciato per chiedere la revoca del commendatorato al portavoce del Cremlino. Però, niente.
In teoria Giorgia Meloni, cui giuridicamente (articolo 5 della legge 3 marzo 1951, n. 178) spetterebbe il compito di avviare la procedura di revoca, è la politica che dovrebbe avere meno remore e riserve a procedere, poiché non ha mai fatto parte di governi o maggioranze che regalavano titoli ai gerarchi russi. Eppure non procede. E non spiega perché non procede.
Vale la pena di notare che sulla questione delle onorificenze Fratelli d’Italia è molto sensibile, visto che ha avviato un’iniziativa legislativa per consentire anche la revoca post mortem e togliere finalmente al maresciallo Tito il titolo di cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Quindi, perché per Peskov e per gli altri 17 cavalieri e commendatori putiniani tutto questo ritardo?
Anche in questo caso, ci sono solo due possibilità: che Meloni non possa e che non voglia procedere. Visto che rispetto a lei è improbabile ipotizzare un kompromat tenuto in caldo nei cassetti di qualche spione, non resta che supporre che Meloni non intenda guastare ulteriormente i rapporti con il Cremlino e rompere i ponti con il mondo con cui, come dice il vicepremier Salvini, bisognerà trattare la pace. D’altra parte, è evidente da quel che dicono i ministri Maurizio Crosetto e Antonio Tajani che l’analisi che guida l’esecutivo è che si tratti di una guerra che l’Ucraina non può vincere e che, per il bene di tutti, la Russia non deve perdere.
Comunque la si metta, quindi, l’irrevocata onorificenza di Peskov non è più solo la prova di un errore passato, ma il presagio di una colpa e di una vergogna futura.