La scemenza di ieri, non diversa da quella degli altri giorni, si è espressa sullo schema che vado a illustrarvi. Amal Clooney, avvocatessa che si occupa di diritti umani, e tra le altre cose avvocatessa di Julian Assange (è un dettaglio che poi ci tornerà comodo conoscere), è nel gruppo di esperti cui il tribunale dei crimini di guerra ha chiesto un parere su Netanyahu.
Il parere dei sei, unanime, è che Netanyahu e il suo ministro della Difesa abbiano commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Poiché siamo molte cose ma prima di tutto siamo la società dello spettacolo, del parere degli altri cinque non frega niente a nessuno, ma Amal Clooney è sposata con un attore che si chiama George, molto famoso e piuttosto belloccio, e la conosce anche chi fino a ottobre non aveva mai letto un articolo nelle pagine di politica estera.
I sei spiegano la loro decisione con un articolo sul Financial Times, il cui primo rigo – proprio il primo, giacché sono gente con tariffe orarie troppo alte per non sapere che il pubblico ha ormai l’attenzione dei pesci rossi – dice: «Gli attacchi di Hamas in Israele il 7 ottobre e la risposta militare israeliana hanno messo alla prova in misura estrema il sistema del diritto internazionale».
Poiché il primo rigo è comunque troppo per un secolo di non lettori che si sentono troppo svegli per aver bisogno di leggere per sapere cosa ci sia scritto, gli studiosi dei pavlovismi sanno già come verrà accolta questa notizia: e allora il sette ottobreeee. (Una volta dovevi scegliere tra Spandau e Duran; quarant’anni dopo, tra il negare i crimini di una parte in causa e il negare quelli degli altri. Per inciso, la realtà era complessa già allora: gli Spandau avevano ritornelli migliori, ma il bassista dei Duran era più sdraiabile).
Però l’internet è bella per questo: proprio quando pensi di sapere ogni croccantino, ogni campanello, ogni bava di cane che ti attendono dietro l’angolo della notizia del giorno, arriva qualcuno la cui scemenza riesce non dico a sorprenderti (sono comunque tutte repliche di schemi già noti), ma che non ti aspettavi di trovare proprio oggi e qui.
Nel mio caso, l’esplorazione della scemenza del lunedì parte da un tweet in cui si dice che è una buona notizia che Amal Clooney abbia firmato questo parere di condanna dei comportamenti di Netanyahu, dopo essere stata molto criticata per il suo silenzio. È stata criticata per il suo silenzio? Ma da chi? Come ti distrai un attimo, c’è un’indignazione che ti perdi.
Amal Clooney, che non ha account social, che non dà interviste praticamente mai, che fa il suo lavoro invece di esibire la sua vita, madre non dico degli unici ma di due rarissimi bambini hollywoodiani di cui non girino foto, Amal Clooney è stata criticata perché non è andata dalla Venier a dire «stop al genocidio»? Ma pensa te.
Apro quel tweet, e altri sul tema, e le risposte di quelli che a loro non la si fa sono magnifiche. «Troppo poco, troppo tardi» (le valutazioni sui crimini di guerra dovrebbero avere la rapidità del televoto, perdinci). «Amal Clooney dovrebbe parlare del Libano, non della Palestina» (si aiuti a casa sua). «Ah beh certo, una musulmana, proprio zero antisemitismo». «E quand’è che chiedono l’arresto di Putin?». «Come al solito Hollywood odia gli ebrei» (Hollywood notoriamente zona di lavoro preclusa ai giudei, c’è proprio un cartello all’ingresso) – eccetera.
Non è mai bello isolare una Vongola75 e prenderla come simbolo di tutto ciò che non va nei cervelli di questo secolo, ma la Vongola del caso è troppo perfetta per non citarla, ed è pure italiana, sebbene non esiti ad andare a cantargliele in inglese un po’ a tutti, compresa la Corte Internazionale per i crimini di guerra («Vergognatevi per averci messo così tanto»).
Vongola s’indigna: «Come sarebbe a dire, stava lavorando? Dire qualcosa contro il genocidio porta via un secondo». Vongola è convinta che un cancelletto qualunque sia meglio d’una qualunque azione concreta, o che comunque le azioni non valgano niente senza cancelletti: «Il silenzio è complicità e Amal Clooney è stata zitta».
Vongola ha i seguenti cancelletti nella bio di Twitter (o come si chiama ora): #Mexico4Julian #CloseGuantánamo #PardonSnowden #FreePalestine (niente #stopalgenocidio: che originalità). Vongola ha un cancelletto anche al posto del nome. Anche una bandierina della Palestina, ma prima un cancelletto. Come vuole che la chiamiamo, dunque, Vongola? #BringAssangeHome.
Purtroppo Vongola twitta moltissimo, e quindi è impossibile leggere le sue passate arringhe: non so se anche su Assange abbia ritenuto di dirci che Amal Clooney lavorava troppo e non cancellettava abbastanza, non so se nel suo mondo di cuoricini abbia consigliato a Julian di cambiare avvocato. Se mai qualcosa dovesse riportarlo a casa, sarebbe un cancelletto, mica un tribunale.
Naturalmente nessuno di noi scopre oggi che c’è un mondo intero di dementi convinti che chiedere una tregua sul palco di Sanremo faccia di te una persona politicamente più impegnata che alzarti la mattina e andare in quegli uffici dove si fanno accadere le cose. È, ancora una volta, un problema di dopamina. Una procedura lunga e silenziosa fatta di studio e documenti e riunioni a porte chiuse non ci dà la scarica che ci serve per sentirci dalla parte giusta; sentir dire «cessate il fuoco» in tv da uno che fa i ritornelli che ci piacciono, invece, è così dilettevole da sembrarci utile.
Ventiquattro anni fa, il presidente di finzione da cui molti di noi hanno imparato come funzionava il mondo dei grandi, Jed Bartlet, litigava con un produttore cinematografico durante una serata elettorale a Los Angeles. In quella puntata di “The West Wing” c’è un deputato repubblicano che vuole vietare la presenza dei gay nell’esercito, e il produttore vuole che il presidente dichiari che, se quella legge dovesse passare, lui metterà il veto.
Per tutto il giorno la squadra del presidente ha spiegato al cinematografaro che quella legge non passerà mai, neppure arriverà a venire votata dal Congresso, e ovviamente se lo fosse il presidente non la firmerebbe, e che fare una dichiarazione sarebbe controproducente: attirerebbe l’attenzione su una proposta di legge che per ora è una barzelletta e le darebbe credibilità.
Il produttore è un anticipo di questo secolo allora ancora in embrione: un secolo in cui solo le cose simboliche interessano, le dichiarazioni, i cancelletti, i cuoricini. Lo è anche nel senso che l’unica cosa che vuole è farsi una foto col famoso più famoso di lui, solo che è il 2000 e i cellulari non fanno le foto, quindi invece dell’autoscatto gli viene promesso che potrà parlare dieci minuti da solo col presidente.
In quei dieci minuti, Bartlet gli spiega che lui vuole «un gesto, un simbolo», cioè che il presidente faccia una dichiarazione contraria, e vuole chiedere pubblicamente che lo faccia pensando di metterlo in imbarazzo, ma l’unica cosa che otterrebbe formulando una simile pubblica richiesta sarebbe fare un gran favore al tizio che ha presentato il disegno di legge, finalmente preso sul serio.
So quel che faccio, gli dice esasperato il presidente, la cosa peggiore che può accadere ai diritti gay in questo paese è che diventino oggetto di dibattito, il che accadrebbe appena dicessi qualcosa. Ma, soprattutto, gli dice la frase che mi torna in mente ogni volta che vedo questi davvero convinti che il dovere degli adulti sia dire «pace nel mondo» ai follower, mica sbattersi nel mondo reale perché le cose cambino.
«Io vivo nel mondo dei professionisti della politica, e tu vivi in quello dei capricci adolescenziali». Oggi il dialogo andrebbe riscritto nella prima parte, ché la deriva di questo secolo ha fatto diventare «professionisti della politica» un insulto, o comunque una classe sociale meno auspicabile di quella dei dilettanti del cancelletto. Ma gli altri, loro invece non li ha fatti traslocare nessuno dal loro comodo habitat di capricci adolescenziali senili, dove prosperano tra un cuoricino e un cancelletto.