L’acuirsi delle tensioni tra Cina e Taiwan può essere un ulteriore buon motivo per riconsiderare le modalità della transizione verde europea nel settore della mobilità. Un piano che è fortunatamente tuttora in fase di continui aggiornamenti e revisioni, ma che ancora non ha raggiunto il traguardo auspicato di una architettura basata sulla neutralità tecnologica che consenta di puntare dritti sugli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra senza dover sottostare a modalità fisse. Altrimenti detto: l’Ue non ha ancora rinunciato a mantenere l’auto elettrica a batteria al centro del suo Green Deal della mobilità. E di fatto ci sono sempre meno certezze che le auto a batteria siano la soluzione migliore.
Ci sono in sostanza ragioni appartenenti a due ordini di fattori diversi: quello geopolitico e anche quello più propriamente industriale. Le prime sono più note, e stanno diventando sempre più evidenti. Crescono le tensioni geopolitiche attorno alla Cina ma anche quelle commerciali, come ha dimostrato il G7 delle finanze, che si è appena svolto a Stresa il 24 e 25 maggio: qui le accuse statunitensi, lanciate dal segretario di Stato americano Janet Yellen sulla sovraproduzione industriale cinese e le conseguenti distorsioni competitive che queste provocano nei confronti dell’industria americana ed europea, hanno trovato immediata accoglienza da parte italiana e francese.
Gli Stati Uniti si sono subito mossi, allestendo un muro protettivo di dazi. L’Europa deve decidere che cosa fare, anche perché se non prenderà provvedimenti, si troverà ancora di più sommersa da prodotti cinesi sottocosto: quelli già all’origine destinati ai Paesi dell’Unione più quelli invenduti negli States.
Non è un problema che le imprese europee possano risolvere da sole. Loro, le imprese, devono muoversi sulla base di certezze. Il caso esemplare è non casualmente quello dell’auto: basta guardare anche vicino casa nostra, a dove si sta indirizzando l’attivismo di Stellantis, il gruppo che controlla i marchi Fiat in Italia, Opel in Germania, Citroen e Peugeot in Francia. Per rispettare i vincoli posti allo stato attuale del Green Deal Ue e centrare gli obiettivo al 2030, non possono limitarsi a vendere suv elettrici e altri modelli di classe media e medio alta, quelli che garantiscono la migliore redditività ma che vendono meno unità.
Con la velocità di crescita del mercato delle auto a batteria rischierebbero di non raggiungere i target e andrebbero incontro a pesanti sanzioni. Allo stato attuale delle norme, devono iniziare a puntare su piccole utilitarie e city car elettriche per guadagnare quote di mercato a basso costo, e per farlo stanno di nuovo corteggiando i produttori cinesi, offrendo impianti e accordi per produrre le loro auto in Europa.
Ma c’è anche una seconda ragione che dovrebbe spingere l’Unione a riconsiderare le sue strategie sulla transizione verde nel settore auto. Il fatto è che la strategia Ue soffre di una sorta di vizio di nascita. Una distorsione che sta proprio al cuore del problema: i criteri di misurazione delle emissioni sotto accusa. Sulla base di una ricerca di consenso rapida nel mondo ambientalista, i provvedimenti della Commissione hanno infatti puntato dritti sul nemico pubblico numero uno dello stato di salute dell’aria delle nostre città: i tubi di scappamento, la pistola fumante, e non in senso solo metaforico, dei milioni di veicoli a motore termico in termini di inquinamento e di alterazioni degli equilibri climatici.
In termini tecnici si chiama Ttw, sigla che sta per tank-to-wheel, letteralmente dal serbatoio alle ruote ed è quello che in italiano si definisce «allo scarico», appunto alla fine del tubo di scappamento. Questa misurazione quantifica le emissioni del motore di ogni singola auto in termini di CO2 e polveri sottili. Quella a cui si sottopone ogni automobile nel momento della revisione biennale. Calcolata in questo modo non ci sia storia tra quello che esce come scarico da un motore termico e da un motore elettrico, che infatti lo scarico neanche ce l’ha. Nel secondo caso il valore è sempre zero.
Solo che questa non è tutta la verità. Perché anche il motore elettrico a batteria produce emissioni. Solo che non lo fa alla fine del processo di alimentazione di ogni singola auto ma al momento in cui viene prodotta l’energia caricata nelle batterie. E poi anche nel processo di produzione e smaltimento delle batterie stesse. Solo che qui i dati non sono così noti. Ma il diverso principio di misurazione sì. Si chiama Wtw, che sta per Well-to-Wheel e misura anche le emissioni effetto del ciclo produttivo dell’energia immagazzinata nelle batterie. Il problema è che mentre la misurazione allo scarico è ormai molto standardizzata, la misurazione Wtw lo è di meno. Ma ci sono già studi che avanzano ipotesi interessanti.
Uno in particolare è però prodotto da un centro di ricerca che fa capo alla stessa Commissione europea, il Joint Research Center, composto da centri di ricerca in Belgio, Germania, Spagna e Italia (per noi c’è l’Ispra). I risultati compaiono anche nel libro “La rivoluzione della mobilità sostenibile parte dalle autostrade” che Autostrade per l’Italia ha appena pubblicato per celebrare il centenario della prima autostrada italiana, la Milano-Laghi, inaugurata nel 1924. Il libro nasce dalla collaborazione di università, centri di ricerca e primari operatori economici del settore della mobilità e del trasporto su gomma, dalle auto alle infrastrutture. Che cosa rivela? Che le auto a batteria emettono zero ma solo nel caso in cui l’energia che carica le loro batterie sia interamente rinnovabile. Scenario che, se tutto va bene, arriverà in Europa solo dopo il 2050.
E nel frattempo? Nel frattempo gli scenari sono diversi a seconda del mix energetico che si utilizza. E ci sono risultati apparentemente paradossali. Se l’energia viene prodotta a partire dal metano che in Italia è alla base del cinquanta per cento dell’energia consumata), un’auto elettrica a batteria ha un indice di emissioni di CO2 per Kwh di trecentocinquantasei: sempre zero allo scarico ma altissimo nel ciclo produzione-trasporto-stoccaggio. Un motore diesel ha un indice di trecentotrentadue e un motore termico alimentato a metano ancora più basso: duecentocinquantasei.
Risultati ancora più eclatanti passando ai combustibili che provengono da fonti rinnovabili. Un motore termico alimentato a biodiesel, l’Hvo che già Eni produce e si trova in alcune stazioni di servizio, prodotto da oli vegetali, ha un indice di emissione di settanta. E un motore a scoppio alimentato da gas proveniente da biomasse scende addirittura a trenta. E in entrambi i casi questi combustibili possono alimentare auto già oggi in circolazione: per il biodiesel basta un motore Euro 6; per il biometano una normale auto a metano fossile.
Tutto questo già da solo mette i motori elettrici a batteria sotto una luce diversa: non sono così verdi come sembra. E poi non si è ancora tenuto conto di altri fattori come la posizione quasi monopolistica che la Cina ha conquistato nella produzione delle batterie; la scarsa sostenibilità di quella stessa produzione in stabilimenti e con procedure non rispettano certo gli standard europei.
Infine il fatto che l’intera tecnologia delle batterie dipende dalla disponibilità di una serie di cosiddette terre rare che provengono soprattutto dall’Africa e di cui la Cina si è assicurata un altro monopolio. Ma terre rare sono presenti anche al di fuori delle batterie, nei magneti dei motori elettrici. Qui una delle principali è il neodimio: l’Europa lo importa dalla Cina per il novantotto per cento. C’è di che riflettere prima di mandare in soffitta i motori termici entro il 2035.