L’account Instagram di questo giornale ha, come tutti gli account Instagram, un numero limitato di righe a disposizione per dare ai non lettori un assaggio di ciò che non leggeranno, cioè dell’articolo che pubblicizza in un post. Perciò, nel caso dei miei articoli, ricopia i primi tre paragrafi.
L’altroieri, il primo rigo del mio primo paragrafo diceva che la scemenza aveva trionfato ancora una volta, rendendolo un articolo indistinguibile da quelli che scrivo ogni giorno: quanto siate scemi è uno dei miei temi preferiti. Poi, riassumeva le circostanze in cui si era espressa la (vostra, ma era sottinteso) scemitudine del lunedì: il parere legale, di Amal Clooney e altri cinque consulenti del tribunale internazionale, su Netanyahu.
Illustrato da una foto di Amal, parecchio più bellina del mio abituale ritratto, l’articolo ha attratto decine di commenti indignati: avevo scritto che l’avvocato Clooney era scema, puntesclamativo, negavo la morte dei bambini palestinesi, doppio puntesclamativo, ero pagata dai sionisti, puntesclamativo col fiocco. Una sola si distingueva, spiegandomi che si diceva «riga» e non «rigo». Ho quindi capito che è necessario che ogni giorno, nei primi tre paragrafi, specifichi che scemi, nei miei articoli, sono sempre e solo quelli che ci sono toccati come lettori, a noi disgraziati che scriviamo – pareri legali o trattati antropologici o ricette della carbonara – in questo secolo.
(È chiaramente una forzatura: è scema un sacco d’altra gente, tra cui moltissima che scrive la roba che non leggete o capite. Ma ciò non mitiga la scemitudine di coloro che commentano sui social dei giornali, che commentano senza aver letto o aver capito, che commentano per sentire il suono della loro voce. Dico specialmente a te, che stai per spiegarmi che si dice «scemenza», non «scemitudine»).
Gli americani, ha spiegato la settimana scorsa Bill Maher alla tv americana, sono convinti di essere divisi in due fazioni, ma non si rendono conto che agli storici, tra mille anni, non importerà nulla di democratici e repubblicani, e in generale delle partigianerie con cui ogni curva convince sé stessa d’essere dissimile dalla curva opposta.
Gli storici, ha spiegato semplificando il più possibile (non che in questo modo il pubblico capisca, ma almeno non cambia canale), caratterizzano le popolazioni in maniera univoca: «Gli spartani erano stoici, i mongoli espansionisti, e agli antichi greci piaceva troppo prenderlo nel culo» (Maher va in onda sulla Hbo, quindi può dire le parolacce, ma per la verità questa l’ha detta in maniera più aggraziata di come gliel’ho tradotta io).
Da qui è partito con una descrizione degli americani alla quale va tolta la parola «americani»; per molto tempo ho creduto che dire «gli americani» (o «gli italiani») fosse una forma di limite dello sguardo: siccome rilevi un carattere negli esseri umani, t’illudi ch’esso sia tipico di coloro che osservi da vicino, del tuo codice postale. Quelli convinti che la superficialità l’abbia inventata Berlusconi e sia esclusiva nostra, e che poi quando arriva Trump si sorprendono: ce li avrete presenti, no?
Di recente però mi è venuto il dubbio che, se alcuni (quelli meno scemi, tra cui Bill Maher) dicono «gli americani», è perché sanno che il loro pubblico legge solo i tre paragrafi estratti per Instagram: se gli dici che parli di loro, c’è la remota possibilità che continuino ad ascoltarti dal quarto paragrafo in poi.
Quindi Maher finge di parlare degli americani, quando dice che gli storici diranno che erano un popolo antiscientifico, perché a destra non credevano nel cambiamento climatico e a sinistra dicevano che il genere è un costrutto sociale, ma sappiamo tutti che sta parlando di noialtri contemporanei, che abbiamo gli stessi pavlovismi in tutto il mondo.
Gli americani, dice Maher, sono paranoidi, dietrologi, cospirazionisti: «La destra voleva credere che Obama fosse nato in Kenya, la sinistra che esistessero dei nastri in cui Trump si faceva pisciare addosso». Parlava di noi: vedendolo, mi è risalito dal rimosso quel periodo in cui ogni italiano conosceva almeno dieci persone che dicevano d’aver sentito con le loro orecchie non so che registrazioni in cui non so che deputata descriveva le pratiche erotiche intercorse tra lei e non so che capo di partito (no, non è una richiesta di nomi, «non so» non significa davvero «non so»: lo vedete che, a furia di podcast, avete disimparato a leggere?).
Maher parla di noi esseri umani, mica degli americani o dei repubblicani o dei democratici. Maher sa la cosa che è più difficile spiegare agli intellettuali di questo secolo: che dalla nostra parte ci sono tanti scemi quanti dall’altra, ed è consolatorio ma purtroppo infondato raccontarsi che se uno si è vaccinato o non pensa che le donne possano avere il cazzo allora è intelligente – magari fosse così facile.
E infatti è impopolare – Maher, con la sua ostinazione a individuare gli scemi anche nella curva cui dovrebbe appartenere – presso la destra quanto lo è presso la sinistra ortodossa, quella per cui per i vaccini è necessario lo stesso consenso entusiasta che postMeToo dovrebbe servire nelle relazioni di coppia, e per cui dire che i mammiferi non possono essere d’un terzo sesso è retrogrado.
L’altro giorno un giornalista di sinistra e gay e militante m’ha spiegato quant’è antiscientifica la mia convinzione che esistano i maschi e le femmine, e io ho fatto appello a tutta la mia agostiniana continenza per non rispondergli «è un bel guaio se non esistono i maschi, visto che sia a me che a te piace scoparci» – una frase che, beninteso, non ho detto neanche ora: ci tengo a piacere alla gente che piace, non ho tempo di aspettare che mi rivalutino gli storici dell’indifferenziato, tra mille anni.
Adesso però scusate, devo andare su Instagram a dire «e pensa se leggessi Gadda, come esploderebbe il cervello a te e a quella prof delle medie i cui insegnamenti ti sei così accuratamente annotato» al primo che mi spiegherà che si dice «sia a me sia a te», non «sia a me che a te». È un lavoro a tempo pieno per entrambi: io striglio Brocco81, lui può andare dai suoi amici a dire «Soncini si percepisce Gadda», e a fine giornata siamo entrambi contenti.
Certo, resta irrisolto il problema del pil, il problema del niente che restituiamo in cambio dei qualsivoglia emolumenti che ci vengono dati, il problema messo a fuoco da Emanuele Trevi l’altra sera, nel programma di Gianrico Carofiglio.
Trevi parlava di quelli che all’università di Trento hanno deliberato di declinare al femminile anche i mestieri maschili, ma l’interrogativo vale per Vongola che m’insegna l’italiano e per me che le dico «ma sarai cretina che vuoi insegnare a Miuccia Prada a fare gli orli», vale per i politici che sui social dibattono di scemenze e per quelli che pensano di risolvere questioni fondamentali in tre righe, vale per tutti noi ai quali Candy e Indesit hanno liberato troppo tempo ed energie.
Noialtri che, senza panni da lavare al fiume, ci balocchiamo a bisticciare o a pontificare o – soprattutto – a sentirci migliori dei nostri interlocutori: ma a fine giornata, chiedeva senza risposta Trevi, come facciamo a dire d’aver lavorato?