Virtuoso e irrogolareGianni De Michelis e l’eleganza dell’avanzo di balera

La biografia scritta da Paolo Franchi per Marsilio ripercorre la storia politica di un personaggio chiave della Prima Repubblica, a cinque anni dalla sua morte. Mai conforme alle aspettative dell’epoca, sempre fiero dei propri vizi e dotato di grande lungimiranza sui processi globali

Archivio Lapresse

Nell’estate del 1960, il diciannovenne Gianni De Michelis, veneziano, studente di Chimica industriale a Padova, già attivo nell’Unione goliardica italiana (Ugi), magliette a strisce non ne indossa: le foto di quegli anni lo ritraggono sempre per quello che è, un liceale modello dell’epoca, che adesso frequenta con impegno e con profitto l’università. Da ragazzino, attorno agli undici, dodici anni, si è professato («Dio solo sa perché») monarchico; appena un po’ più grandicello, ai tempi delle mobilitazioni studentesche per Trieste italiana, si è avvicinato alla Giovane Italia, l’organizzazione giovanile del Msi.

Alla vigilia delle elezioni del 1972 non saranno i comunisti o gli extraparlamentari di sinistra a rinfacciarglielo, ma, con un ciclostilato anonimo, alcuni concorrenti socialisti nella corsa per un seggio a Montecitorio. La denuncia si rivelerà utile a fargli perdere di un soffio la gara – non verrà eletto per centocinquanta voti – e a rendergli ancora più chiaro quello che sapeva già, e cioè che in politica bisogna guardarsi dagli amici ancora più che dagli avversari, e stare molto attenti, come nella pallanuoto, ai colpi proibiti sferrati sotto il pelo dell’acqua, dove si gioca una parte davvero non secondaria della partita.

Ma la sua biografia politica, sempre che di biografia politica si possa parlare per un adolescente, è già un’altra. Quindicenne o giù di lì, studente al liceo Marco Polo, infatti, ha cambiato radicalmente, e definitivamente, idea. In famiglia si legge il «Corriere», all’epoca tanto autorevole quanto conservatore, ma a lui va stretto. Qualche anno ancora, e i suoi giornali di culto diventeranno rapidamente «Il Giorno», il quotidiano fortissimamente voluto da Enrico Mattei per fare editorialmente da contraltare al «Corriere» e politicamente da battistrada al centro-sinistra, e «L’Espresso», il settimanale di Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari che, come e più del «Giorno», ha rivoluzionato il panorama della stampa italiana, e in politica batte, interessi dell’Eni a parte, la stessa bandiera.

Il liceale Gianni De Michelis non solo li legge avidamente, li esibisce come un’autocertificazione della sua identità politica e culturale, un po’ come i giovani comunisti fanno con «l’Unità» infilata ben in vista nella tasca della giacca perché se ne possa leggere la testata. Si considera, ed è considerato oltre ogni ragionevole dubbio da professori e compagni di scuola, di sinistra: più radicale che socialista, magari, o forse radical socialista; per un ragazzo dell’epoca, comprensibilmente poco appassionato agli aspri contrasti che squassano il piccolo mondo dei radicali, le cose non sono poi così chiare.

Radicale, o radical socialista, ma in ogni caso apertamente schierato a sinistra, lo ricorda ancora un altro studente del Marco Polo, Massimo Cacciari, di quattro anni più giovane, che – Venezia è piccola – lo ha conosciuto da ragazzino in vacanza a Falcade, e di lì a poco diventerà prima il suo amico-rivale, poi il suo rivale e basta, nella sinistra veneziana. E di un giovanissimo Gianni antifascista e di sinistra ha dato ulteriore testimonianza il fratello Cesare, il primo in famiglia a aderire, tredicenne, al Psi.

In piazza San Marco manifestano i giovani missini; Cesare, Gianni, Gianluigi Mengarelli, futuro docente di Economia a Ca’ Foscari, e Roberto Tonini, che diventerà un dirigente della Fiom e sarà assessore ai Lavori pubblici con Cacciari, distribuiscono volantini antifascisti. «Ci venne addosso una decina di rugbisti del Cus di Trieste, io presi più pugni e calci degli altri» testimonierà Cesare in un’intervista televisiva. «Diventai così per qualche tempo una specie di icona nella sinistra veneziana».

Per Gianni il giorno della svolta è il 9 luglio 1960. Due giorni prima, a Reggio Emilia, la Celere del governo Tambroni – un monocolore democristiano che nelle intenzioni del capo dello Stato Giovanni Gronchi avrebbe dovuto aprire la via al centro-sinistra e invece resta in vita, sempre con il sostegno del Quirinale, solo grazie ai voti del Msi – ha sparato sulla folla, lasciando cinque giovani dimostranti sul selciato.

«L’Unità» e l’«Avanti!», e con loro, guarda caso, solo «il Giorno», sono gli unici quotidiani a pubblicare le foto dei poliziotti che sparano ad altezza d’uomo. La protesta dilaga in tutta Italia. Il giorno successivo, l’8 luglio, a Venezia come dappertutto, è sciopero generale, indetto dalla Cgil. L’indomani, il Consiglio federativo della Resistenza convoca una manifestazione antifascista a Castello, in Riva dei Sette Martiri, il cui nome deriva da quanto accaduto il 3 agosto 1944, quando si chiamava ancora Riva dell’Impero e i tedeschi vi fucilarono per rappresaglia sette tra partigiani e renitenti alla leva della Repubblica di Salò. Sul palco parlano ex partigiani, dirigenti sindacali, esponenti dei partiti della sinistra, intellettuali.

E, per la prima volta, anche alcuni rappresentanti degli studenti: quelli di Architettura, già allora i più politicizzati a sinistra, ma pure Gianni De Michelis, che in pubblico non ha parlato mai, e non è destinato a passare alla storia come un grande oratore. Se la cava con un discorso di pochi minuti, prendendo i primi applausi della sua vita. Sceso dal palco, si rende conto che a lui un impegno politico tutto sommato occasionale e generico, da cane sciolto, non basta più.

Tratto da “L’irregolare. Una vita di Gianni De Michelis” di Paolo Franchi, Marsilio Editore, pp. 201, 17€

X