Né colpa, né immunitàL’accusa ingiusta contro Israele e le difese sbagliate di Israele sui crimini di guerra

Gli errori della corte penale internazionale, dei nemici e anche degli amici dello stato ebraico sono tanti. Vediamo di non alimentarli

Lapresse Israele Netanyahu

Con amara ironia ci si potrebbe pure compiacere che le imputazioni del procuratore della Corte penale internazionale (Cpi), Karim Ahmad Khan, contro Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant almeno derubrichino l’accusa di genocidio contro Israele in quella di crimini di guerra e contro l’umanità (un piccolissimo passo indietro nell’orrore) e scriminino le responsabilità collettive degli israeliani ai danni dei gazawi, concentrandosi su quelle individuali del premier e del ministro della Difesa (un piccolissimo passo avanti nella decenza), pur ragguagliando la loro condotta a quella di Ismail Haniyeh e Yahya Sinwar (un gigantesco salto nel vuoto dell’assurdo e del ridicolo).

Viviamo in un mondo in cui i pogrom, ufficialmente, non vengono dal nulla, ma – come è ovvio – dagli ebrei, in cui la legittimità dell’odio anti-ebraico dipende dal contesto delle supercazzole anti-colonialiste e anti-imperialiste in cui viene risciacquato e in cui aggredire gli ebrei per strada non fa più notizia e, se fa notizia, suscita più fastidio per il vittimismo degli aggrediti che scandalo per la protervia degli aggressori.

Viviamo anche, per non farci mancare niente, in un mondo in cui la stessa politica israeliana è tenuta in ostaggio da piccole minoranze fasciste e razziste, che sembrano inventate dalla fantasia cospiratoria della pubblicistica antisemita e sono l’alibi perfetto di ogni delitto contro la verità e la libertà dello stato ebraico.

Visto tutto questo, si potrebbe perfino sperare in uno degli spettacolari ex malo bonum della storia e confidare che per eterogenesi dei fini quest’accusa infamante aiuti a liberarsi di Netanyahu, a riabilitare l’immagine di Israele, a riconsegnare il governo delle istituzioni di Gerusalemme nelle mani di uomini di Stato e di Governo con la testa sulle spalle. A uomini che non portino le responsabilità di tutto il male fatto, prima e dopo il 7 ottobre, alla sicurezza e alla reputazione di Israele dagli apprendisti stregoni del tanto peggio tanto meglio, in questo gioco scoperto di intelligenza con Hamas e di divisione del lavoro coi tagliagole islamisti nella distruzione di ogni prospettiva di normalizzazione dei rapporti israelo-palestinesi, all’interno dello stato ebraico come a Gaza o in Cisgiordania.

Purtroppo non finirà così. Meglio non illudersi. Quelli che fuori e dentro Israele stavano lavorando per isolare e disarcionare Netanyahu, dal suo coimputato Gallant a Benny Gantz e ai leader dei partiti di opposizione non coinvolti nel gabinetto di guerra, fino a Joe Biden e Antony Blinken, dovranno ora comprensibilmente unirsi per rispondere a questa offesa a Israele e non potranno facilmente scaricare il bersaglio grosso dell’azione della Corte penale internazionale.

C’è poi un altro rischio, un altro effetto a catena che congiura contro una soluzione pacifica dei problemi interni a Israele come condizione a questo punto irrinunciabile per affrontare i problemi esterni. Quest’ultimi però (come dovrebbe essere noto, ma non lo è) dipendono poco o nulla da Israele, ma dalla guerra intra-palestinese e intra-islamica che si trascina da decenni, di cui Israele è un bersaglio naturale e che qualcuno (Netanyahu e il suo corteggio di impresentabili) dentro la Knesset ha pensato di trasformare in un business o in una rendita illimitata.

Questo è il rischio che incombe in primo luogo sugli israeliani e sugli amici di Israele e della democrazia. Questo rischio riguarda l’accettazione di quella logica da guerra sporca per cui, scelta una parte, i fini giustificano qualunque mezzo, l’orrore giustifica qualunque argomento, l’abnormità delle imputazioni giustifica l’abnormità delle immunità, che si pretendono per i buoni.

Ci sono ottime ragioni per ritenere insulsa o, più moderatamente, infondata una imputazione in cui i crimini dei due ministri israeliani (perché solo loro due, dentro il gabinetto di guerra?) non sono dedotti dall’accertamento della volontà deliberata di uccidere indiscriminatamente i civili o di evitare le cautele necessarie per minimizzare l’impatto umanitario delle operazioni militari, ma da una grossolana quantificazione delle morti e delle sofferenze procurate. Come se queste non dipendessero in primo luogo dalle responsabilità di Hamas nella trasformazione di quella conigliera dell’odio che è Gaza in un gigantesco scudo umano di due milioni di derelitti, nell’uso dei canali di rifornimento umanitario come canali di rifornimento o di aggressione militare, nella riconversione dual use degli ospedali in galere per gli ostaggi e in depositi per le armi, nell’auto-boicottaggio delle attività di soccorso e nell’auto-affamamento o auto-sparamento di donne e bambini come spettacolo planetario dell’empietà sionista.

Ci sono ottime ragioni per sostenere che Israele non ha fatto ciò di cui viene accusata, peraltro da una Procura che non ha ancora rivolto a Putin, dopo ventisei mesi di Bucha tentate e riuscite, un’accusa grave come quella formulata contro Netanyahu.

Non c’è invece una sola ragione né buona né utile per sostenere che Israele non dovrebbe essere accusata di nulla perché è una democrazia e perché il diritto alla guerra di difesa e di resistenza (ius ad bellum) neutralizza, in linea di principio, ogni addebito circa il modo in cui le guerre giuste sono condotte (ius in bello) e che rappresenta invece proprio la sostanza del diritto umanitario.

Non c’è una sola ragione né buona né utile per sostenere che, al di là di tutto, Israele ha diritto di fare di Gaza ciò che gli alleati fecero di Dresda, proprio perché il diritto alla difesa della vita e della libertà degli aggrediti implica un uguale riconoscimento del diritto alla vita e alla dignità di tutti gli ostaggi, volontari e no, consapevoli e no, delle immonde macellerie della Storia e una complicata ponderazione tra i diritti degli uni e quelli degli altri.

Non c’è ragione per andare così platealmente al di là del diritto, soprattutto perché, malgrado tutto, Israele rimane un esempio vivente di resistenza alla tanatofilia islamista e, pur potendolo, non ha fatto di Gaza Dresda come avrebbero voluto i suoi nemici e come l’accusa di avere fatto il procuratore della Corte penale internazionale.

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