Miracoli della campagna elettorale: le opposizioni non litigano. Litigano, piuttosto, nella maggioranza. È una scena insolita che contraddice l’abituale rissosità a sinistra (o centrosinistra) e il consolidato professionismo a destra nel far finta di andare d’amore e d’accordo. In questi giorni le opposizioni attaccano il governo e non si azzuffano tra loro, la nostra sembra diventata una democrazia normale, persino nel Partito democratico, territorio infido, paiono improvvisamente affratellati sotto la cometa di Elly. Non dicendo nulla di particolare i dem sono incoraggiati dai sondaggi, meno parlano (e litigano, perché se parlano litigano) e meglio è.
I partiti non si mordono più come al solito. Eppure solo qualche settimana fa l’avvocato Giuseppe Conte metteva in forse addirittura la moralità dei Democratici e faceva il bello e il cattivo tempo a Bari come in Basilicata, fino al punto che la mite Schlein a un certo punto – udite udite – reagì con un bel «non prendiamo lezioni». Poi più nulla. Conte non si sa più bene cosa faccia e cosa pensi, di certo non attacca più gli amici dem i quali contraccambiano volentieri il deferente silenzio.
Quelli di Alleanza Verdi Sinistra hanno azzeccato la mossa – c’è chi dice: lo spot – su Ilaria Salis, il quattro per cento è vicino, forse raggiunto, e tanto basti. Ma l’assenza di guerra (che pure non è pace, al massimo qualche scaramuccia) più clamorosa è quella tra Carlo Calenda e Matteo Renzi, peraltro capi di due liste politicamente affini e dunque a maggior ragione concorrenti, eppure non una parola ostile, neppure su X, finora terreno prediletto per sfide verbali ai limiti della buona creanza, e non solo tra i due capoccia, ma anche tra le rispettive truppe che pure sono così avvezze a darsele di santa ragione.
È evidente che la fine di graffi e contumelie di colonnelle e colonnelli di Azione versus Stati Uniti d’Europa e viceversa, e delle risse tra Conte e Renzi, tra Andrea Orlando e Calenda, tra Pier Luigi Bersani e Roberto Giachetti e giù per li rami è lenitiva e alla fine utile per tutti.
Certo, è la campagna elettorale che narcotizza i dissensi, ma questo vale per il Pd (dove peraltro i candidati si massacrano sul territorio per prendere più preferenze del compagno di lista), perché a pochi giorni dal voto non è certo il caso di spaccare more solito il capello in quattro tra riformisti e massimalisti. Ora, è praticamente certo che non ci sarà un travaso di voti da polo a polo ma semmai una diversa distribuzione all’interno di uno stesso blocco, e tuttavia la stranezza è che non si compete tra alleati, cosa che il proporzionale spinge a fare.
La domanda è se tra le opposizioni questa quiete preluda a una tempesta dopo il voto. Probabile che un Conte che dalle urne uscisse male sarebbe più nervoso. E che comunque vada a finire qualcosa di interessante succederà nell’ex Terzo polo. Mentre paradossalmente la litigiosità è ben più visibile tra i partiti della maggioranza. Se n’è scritto ieri.
Certi che il voto europeo non determinerà alcun terremoto politico, Giorgia Meloni, Antonio Tajani e Matteo Salvini cercano di tirare acqua al loro mulino pestandosi spesso i piedi ma sono tranquilli sulla stabilità della situazione politica. Anche perché nulla impedisce di pensare che dopo il voto quegli altri ricominceranno a litigare. Ma parimenti, forse, hanno capito che la litigiosità nuoce. E infastidisce gli elettori.