«Per capire un vino bisogna camminare le vigne» diceva Luigi Veronelli (filosofo, giornalista e gastronomo italiano) anticipando il principio alla base dell’ormai consolidato successo del cosiddetto enoturismo, pensato per portare un pubblico di winelovers a scoprire le peculiarità dei territori e le storie di chi produce ciò che sono abituati a gustare nel bicchiere.
La Toscana è ovviamente una delle destinazioni più gettonate per questo tipo di viaggi, con una serie di itinerari tra i vari distretti enologi, scanditi da visite alle cantine e degustazioni tra le vigne, a cui nel tempo si sono aggiunte sempre più attività collaterali: dai trattamenti benessere basati sulla wine-therapy alle attività sportive e culturali da svolgere sul territorio.
Non solo calici. Non solo uomini
Secondo il diciannovesimo rapporto dell’Osservatorio Nazionale del Turismo del Vino, presentato al Vinitaly 2023 e frutto dell’indagine condotta da Nomisma-Wine Monitor sull’enoturismo in Italia, sebbene la maggior parte (il 55 per cento) delle cantine turistiche nazionali sia attualmente diretta da uomini, il management della wine hospitality è ormai soprattutto femminile (73 per cento). E proprio questo crescente coinvolgimento delle donne sta trasformando il settore dell’enoturismo, favorendo una maggiore diversificazione dell’offerta e una complementarietà delle proposte: non più solo vino, ma anche accoglienza ricettiva, attività legate a benessere, sport e relax, assaggi di cucina tipica, occasioni per svolgere esperienze culturali (dai laboratori agli eventi pubblici) e visite nel territorio circostante le vigne.
L’obiettivo è quello di tramandare un patrimonio di emozioni e tradizioni familiari che passano attraverso il legame con la natura, il lavoro a contatto con la terra, la cura per la bellezza e per il rispetto per il tempo che rinnova e accresce il valore della storia, a patto di prendersene cura.
Luoghi unici in cui immergersi nella storia e nel gusto
Tra i luoghi più esclusivi in cui sperimentare questo senso dell’accoglienza legata alla bellezza ci sono le ville medicee: quattordici siti costruiti tra il quindicesimo e la prima metà del diciottesimo secolo in alcuni dei borghi più suggestivi della Toscana e in perfetta armonia estetica con la natura (come tipico della sensibilità caratteristica dell’architettura umanistica e rinascimentale) e che nel 2013 hanno ottenuto il riconoscimento di patrimonio culturale dell’umanità dall’Unesco.
Tra edifici raffinati, giardini ornamentali, magnifici affacci panoramici e sinergica interazione con l’ambiente circostante, queste architetture conservano ancora oggi la loro destinazione d’uso: quella di luoghi di lavoro, di riposo e di svago, dedicati alle arti e alle conoscenze, ma anche ai piaceri del buon cibo e del buon bere, celebrati attraverso preziosi banchetti che le cronache dell’epoca descrivono come il frutto dell’impegno di questa famiglia a promuovere l’agricoltura e gli allevamenti di bestiame, del suo amore per la caccia e della capacità di introdurre una vera e propria rivoluzione anche a tavola (a partire dall’introduzione della forchetta).
In questi luoghi è ancora oggi possibile vivere esperienze uniche, immergendosi nella storia e nelle storie dei personaggi che li hanno abitati e apprezzati per le loro peculiarità, anche gastronomiche. Villa di Poggio a Caiano, famosa per le sue cascine dove venivano sperimentate tecniche moderne di allevamento e agricoltura grazie alle quali ottenere prodotti molti dei quali ormai sono andati perduti. Villa della Petraia, celebre per gli agrumi, le piante officinali, i capperi, e soprattutto per i suoi alberi da frutto nani – ciliegi e susini – tanto amati da Ferdinando, per la facilità di raccoglierne i frutti. Le Ville del Mugello, dove sarebbe nato il tortello nella sua versione originale con ripieno di castagne (a cui solo nell’Ottocento si sarebbero sostituite le patate, utilizzate ancora oggi). Le Ville di Montalbano, area prediletta per le battute di caccia medicee, dove è plausibile che abbiano avuto origine piatti entrati stabilmente a far parte della tradizione culinaria toscana come “la lepre (o il cinghiale) in dolce e forte”, in cui la cacciagione si sposa con l’agrodolce conferito da un mix di sale, zucchero, aceto, cioccolato, frutta secca e candita. E poi Villa di Cerreto Guidi, situata in una zona celebre non solo per il “berlingozzo di Lamporecchio” (dolce tradizionale collegato al Carnevale, molto amato da Cosimo I e conosciuto anche da Lorenzo de’ Medici), ma anche per il “carciofo empolese”, eletto da Caterina de’ Medici a protagonista di molte ricette come il tortino di carciofi.
Le residenze medicee fiorentine invece sono state al centro di alcune grandi invenzioni come la “Bistecca Fiorentina” (ideata al tempo dei Medici, quando in occasione della festa di San Lorenzo in città venivano accesi grandi falò su cui venivano arrostiti grandi pezzi di carne di vitello) e persino il gelato, ideato nella sua forma attuale da Bernardi Buontalenti (architetto, appassionato di cucina e organizzatore di sontuosi banchetti), al quale ancora oggi è dedicato il gusto “Buontalenti” o “Crema fiorentina” (a base di zabaione), degustabile in alcune gelaterie della città.
…ma anche nel vino
Una tappa obbligata per gli amanti del buon vino è “La Ferdinanda” o Villa di Artimino, situata nel cuore dell’omonima tenuta che si estende su 732 ettari di campagna toscana, al confine con il Polesine, al centro di un vasto territorio collinare famoso per la produzione di vino (oltre che dei fichi secchi di Carmignano, oggi presidio Slow Food).
Nota anche come “Villa dei cento camini” (sebbene in realtà ce ne siano solo cinquantasei), fu costruita nel 1596 per volere di Ferdinando I de’ Medici che, malato di gotta, desiderava trascorrere al caldo i suoi gironi di otium. Il progetto fu affidato al sopra citato architetto Buontalenti che, appassionato di architettura militare, conferì alla villa una forma semplice, squadrata e simmetrica sia all’interno (con grandi saloni circondati da sale quadrate) sia all’esterno (con facciate lineari e bastioni angolari).
Eppure, nonostante l’aspetto austero da fortezza, non mancano elementi artistici che guardano all’architettura dell’antica Roma, come la decorazione a grottesche con affreschi allegorico-moraleggianti dei pittori manieristi Domenico Cresti e Bernardino Poccetti, dai colori accesi in contrapposizione con le tinte fredde dell’esterno. In più questa è l’unica villa medicea senza recinzione, che comunica e si fonde in un’osmosi totale con la natura e il paesaggio circostante.
La scelta stessa del posizionamento della struttura non è casuale: La Ferdinanda si erge sopra una falda acquifera, su un’altura che gli scavi archeologici hanno permesso di riconoscere come terreno sacro per gli Etruschi, in quanto sede di riti religiosi per la civiltà antica a cui i Medici hanno cercato di riconnettersi per sottolineare l’unicità della popolazione toscana.
Ma soprattutto la villa domina un panorama collinare disseminato di vigne, dove hanno avuto origine alcuni dei vini più antichi d’Italia, la cui tradizione risalente all’epoca degli Etruschi fu proseguita dai de’ Medici che qui stabilirono la loro cantina e che, per preservare la produzione dei propri vini, formularono i primi disciplinari di produzione d’Italia: per esempio, nel 1716, Cosimo III emanò un editto di tutela che delimitava l’area di produzione dei vini di Carmignano, definendoli “vini atti a navigare”, adatti quindi all’esportazione, sottolineando così la loro longevità e qualità. Tra questi c’era l’ancora attuale Carmignano (la Docg più antica d’Italia), l’unico blend a contenere, oltre al Sangiovese, una percentuale di Cabernet, vitigno portato dalla Francia nel Cinquecento proprio da Caterina de’ Medici e noto all’epoca con il nome di “uva Francesca”.
Modernità contemporanea: il lusso di tornare indietro nel tempo
Dagli anni Ottanta, la Tenuta di Artimino appartiene alla famiglia Olmo, che di generazione in generazione ha continuato la produzione vitivinicola centenaria di questi settantasette ettari di vigneti, adattandola a un approccio più sostenibile. Oggi l’azienda è gestita della Ceo Annabella Pascale, che da due anni ha affidato la cura della vendemmia all’enologo Riccardo Cotarella (presidente di Assoenologi), e produce ben due Docg (Chianti e Carmignano), tra cui il rosato “Vin Ruspo” (dal toscano “rubato” perché, secondo la leggenda, in passato veniva ricavato dalle uve che di nascosto i contadini sottraevano alla vigna e pressavano per una notte all’interno delle cassette per la vendemmia allo scopo di ricavarne il “succo”, per poi restituire i grappoli la mattina seguente).
Ma soprattutto la famiglia Olmo ha portato avanti l’ancor più antica tradizione dell’accoglienza turistica di questo luogo, dando la possibilità a winelovers (e non solo) di soggiornare in un resort diffuso, suddiviso tra le trentasei camere dell’Hotel Paggeria Medicea, aperto lo scorso marzo e situato proprio accanto alla villa (dove un tempo si trovavano fienili, stalle e alloggi dei lavoranti), e le casette Borgo o le Fagianaie all’interno del borgo medievale di Artimino, a quattrocento metri di distanza.
Il tutto dal 2022 è affidato alla gestione del gruppo spagnolo Meliá Hotels International, ma non ha perso il suo carattere di esclusività e unicità caratteristica, che si ritrova anche nell’offerta gastronomica studiata apposta per accompagnare la degustazione dei vini della tenuta. Si va da attività come lo “Chic-Nic” (un pic-nic con ricco cestino e degustazione di vino en plein air) all’offerta dei due ristoranti (più un pool bar con formula da bistrot internazionale) che fanno parte dei due complessi in cui è suddivisa la proprietà: il ristorante Biagio Pignatta (accanto all’hotel) e La Cantina del Redi, all’interno delle mura medievali di Artimino.
Il primo ha una proposta più ricercata (come la rivisitazione dall’anatra all’arancia, canard à l’orange o “papero al melarancio”, piatto tanto amato da Caterina de’ Medici, che dopo averlo importato dalla Francia – insieme alla forchetta e alle tovaglie broccate – lo volle tra le portate del suo banchetto nuziale del 1533; il secondo invece è più rustico e tradizionale sia nel menu (trippa in zimino, pappardelle al ragù di cinghiale, peposo) sia nella location.
In entrambi non mancano i piatti e gli ingredienti più tipici della gastronomia toscana (i taglieri di salumi e formaggi accompagnati dalle mostarde, la panzanella, la bistecca fiorentina), ma neppure le suggestione esotiche giustificate dalle origini marocchine del giovanissimo chef Khoumachi Makram, che inserisce in carta un po’ della sua cultura proponendo antipasti o amuse-bouche mediorientali (come hummus e babaganoush abbinati a pane “sciocco” toscano) e facendo un sapiente utilizzo delle spezie per esaltare gli ingredienti delle ricette locali.
Infine l’accoglienza professionale del maître Ciro Borriello, di origini napoletane, che dopo cinquanta anni di esperienza in tutta Italia, oggi porta nel servizio di sala ad Artimino il calore tipicamente partenopeo, contribuendo a restituire agli ospiti quel senso di italianità che non è solo buon cibo, buon vino e bei paesaggi, ma soprattutto un modo di essere e di vivere, di apprezzare il passato e di partecipare alla bellezza di ciò che ci circonda, tramandandola.
In luoghi come questo il concetto di lusso acquista un nuovo significato: è il privilegio di lasciarsi riportare indietro nel tempo per vivere un’esperienza unica, in una location esclusiva, frutto di un’attenta ricerca di raffinata eleganza, ma che vive in simbiosi con il paesaggio, con la natura, coi prodotti della terra e con la storia.