Nessuna prospettiva di tregua in cambio della liberazione degli ostaggi, e guerra a bassa intensità a Rafah. La crisi di Gaza si è cronicizzata in un conflitto che può durare ancora mesi e mesi. Situazione diversa sul fronte Nord, col Libano, dove è in atto una sia pur lenta escalation tra Israele ed Hezbollah: dopo otto mesi di incremento quotidiano, da un momento all’altro può deflagrare in una guerra vera e propria. Idf, l’esercito israeliano, ha ufficialmente comunicato martedì che «sono stati approvati i piani per una offensiva militare in Libano» e lo stesso Benny Gantz, leader dell’opposizione, ha detto di essere disposto ad appoggiare ogni azione militare a favore della popolazione del nord di Israele che ha sofferto – il dato è impressionante – il lancio di ben cinquemila missili da parte di Hezbollah.
Dunque, è possibile che il governo di Gerusalemme decida di iniziare una guerra guerreggiata contro il Libano, con invasione di terra coordinata con massicci bombardamenti aerei. Prospettiva contro cui lavora Amos Hochstein, inviato di Joe Biden che sta tentando a Beirut una mediazione con Hezbollah, tramite il presidente del Parlamento Nabih Berri e che ha detto: «Gli Stati Uniti vogliono evitare una ulteriore escalation verso una guerriglia grande tra Israele e Libano».
Tensione massima, dunque, e ogni esito possibile, col di più di una polemica diretta tra Benjamin Netanyahu e Joe Biden sulla fornitura di armi americane a Israele.
Questo è il polso della situazione mentre la cronicizzazione del conflitto a Gaza fa presagire ancora combattimenti su quel fronte. Il tutto, con speranze sempre più declinanti sulla sorte degli ostaggi. È sempre più chiaro, infatti, che il capo di Hamas Yahya Sinwar abbia deciso di rifiutare la pur eccellente proposta di mediazione americana per una ragione sola: non ha nessuna intenzione di liberare i superstiti. Gli sono indispensabili come scudi umani permanenti per sopravvivere nel suo immenso reticolo di bunker sotterranei.
Nel frattempo, continuano e crescono le manifestazioni contro Netanyahu, a Tel Aviv e Gerusalemme, non solo quelle organizzate dai parenti degli ostaggi. Con la novità che adesso sfila personalmente anche Benny Gantz, mentre è sempre più precario il rapporto tra il premier e i generali, tanto che il primo ha esclamato: «Abbiamo un Paese con un esercito e non un esercito con un Paese». Di fatto, è la presa d’atto che per la prima volta nella storia del Paese, le Forze Armate israeliane prendono ormai decisioni autonome dal potere politico. Motivo dello scontro, una tregua quotidiana nei combattimenti a sud della Striscia annunciata dall’esercito che ha creato la dura reazione del premier che ha negato di averla mai autorizzata. Premier che – ennesimo sintomo della sua debolezza – ha dovuto sciogliere il “Consiglio di Guerra” che sinora ha formalmente guidato le operazioni militari per evitare che al posto di Benny Gantz e di Gadi Eisenkot subentrassero Itamar ben Gvir e Itzael Smotrich, che lo avevano chiesto a gran voce.
L’ingresso nella cabina di regia della guerra dei due ministri xenofobi e razzisti, di estrema destra, avrebbe infatti creato un’immediata reazione di rigetto da parte delle Forze Armate e un ulteriore, definitivo, elemento di rottura con gli Stati Uniti.
Netanyahu naviga sempre più a vista, sempre più isolato sulla scena internazionale, caparbiamente ancorato alla sua maggioranza parlamentare, incurante delle divisioni crescenti nel Paese e addirittura con le Forze Armate, tanto che irresponsabilmente accusa i suoi avversari interni di «provocare la guerra civile». Sua unica certezza: negare sia le elezioni anticipate sia il varo di una commissione d’inchiesta indipendente sul 7 ottobre, richieste invece ora a gran voce da Benny Gantz e da tutta l’opposizione. Un braccio di ferro sfiancante, che ha un effetto deleterio sui soldati impegnati nella più lunga guerra che Israele abbia mai combattuto e che rischia di costare carissimo, sotto tutti i profili, allo Stato ebraico.