Domenica prossima, circa trecentocinquantanove milioni di europei (di cui quarantasette milioni di italiani) andranno a votare per scegliere chi dovrà governare l’Unione europea nel prossimo quinquennio. Tra le forze in campo ci sono, almeno a parole, notevoli differenze: alcuni sono più sensibili alle politiche per contrastare l’urgenza climatica, altri ne temono gli impatti economici e sociali; alcuni auspicano un’Europa più interventista in politica estera, altri vogliono preservare il ruolo degli Stati nazionali; alcuni desiderano favorire l’accesso di nuovi Stati membri all’Ue, altri vorrebbero invece espellere alcuni dei membri attuali.
C’è però un tema su cui le diverse formazioni – almeno in Italia, e a dispetto del modo diverso in cui si esprimono – sembrano convergere: praticamente tutti i candidati italiani al Parlamento europeo pensano che l’Europa dovrebbe fare (leggi: spendere) di più. Gli uni ritengono che Bruxelles dovrebbe dotarsi di un budget più generoso e indirizzare le risorse verso specifici obiettivi di comune interesse; gli altri sperano invece che nuove risorse siano messe a disposizione dei governi nazionali. Ma la natura degli addendi non ne cambia la somma. Lo si è visto plasticamente nel voto compatto degli europarlamentari italiani contro il nuovo patto di stabilità: a leggerne in controluce le ragioni, si capisce che essi avrebbero bocciato qualunque versione del patto di stabilità diversa da un assegno in bianco a favore del nostro Paese.
Ecco, sarebbe invece opportuno mettere in discussione questo assunto. Non tanto e non solo per realismo politico: è infatti impensabile che il resto d’Europa accetti di tassarsi perché noi possiamo spendere di più, senza dover battere cassa dai contribuenti italiani. Bisognerebbe piuttosto riconoscere che tale prospettiva di bulimia fiscale, prima che politicamente insostenibile, è economicamente indesiderabile.
L’Europa è già oggi una delle economie a maggiore intensità di spesa pubblica. Chi vuole un bilancio europeo più pesante non ha quasi mai in mente una mera cessione di sovranità, cioè il trasferimento a Bruxelles di una parte delle risorse oggi gestite (e prelevate) a Roma, Parigi e Berlino. Ha più spesso in testa un incremento dei fondi pubblici europei, a parità di spesa nazionale (o magari incrementando pure questa). Ma non esiste una immacolata concezione del denaro pubblico che, d’altronde, come ricordava spesso Margaret Thatcher, è sempre e solo denaro dei contribuenti. I fondi Ue possono venire da tre canali: più tasse, più debito o più moneta (cioè più inflazione). Sono tre meccanismi che abbiamo sperimentato negli ultimi anni, col picco di spesa pubblica dovuta alle misure post-pandemiche e al Pnrr.
Alzi la mano chi ritiene che questo esperimento ci lascerà, in termini di crescita, più di quanto non ci stia costando in termini di tasse, debito e inflazione. Sarebbe bello se qualcuno dei candidati non promettesse più spesa, ma meno spesa; non un’Europa che “fa di più”, ma un’Europa che fa (bene) quel poco che deve fare e che, pertanto, disfa molta dell’iper-regolamentazione messa in campo in questi anni.