C’è un «principio non scritto che risiede nell’animo di ogni marinaio: quello di prestare aiuto a chiunque rischi di perdere la propria vita in mare». A dirlo non è stato il portavoce di una Ong in polemica contro il governo, ma l’ammiraglio Giovanni Pettorino, penultimo comandante della Guardia costiera italiana.
Era il 20 luglio 2018.Un anno prima, i boss del traffico di esseri umani in Libia si erano seduti al tavolo con
emissari delle autorità italiane. Un viaggio tenuto segreto, nel quale l’Italia parlava di gestione dei flussi migratori e la controparte faceva i conti di quanto avrebbe potuto incassare.
Quella mattina di luglio, in occasione della cerimonia con cui viene ricordata la fondazione della Guardia costiera, nata quasi centocinquant’anni prima, davanti al ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli e al presidente della Camera Roberto Fico, l’ufficiale Pettorino ha scandito il caposaldo di chi va per mare. Parole espresse per ribadire quale sia la spinta interiore che sentono i guardacoste ogni volta che arriva un sos.
Nel tono e nel lessico di Pettorino non ci sono accenti polemici. Ma quelle affermazioni pesano. E, quando il comandante le pronuncia, viene calorosamente interrotto dagli applausi prolungati delle centinaia di divise bianche che lo ascoltano.
È stato un atto di fierezza, il suo, che avrebbe dovuto chiudersi lì. Ma un servitore dello Stato lo riconosci anche perché sa celebrare i «signornò». E succede quando l’ammiraglio si sfila le lenti da lettura e, con piglio sicuro, ricorda un episodio lontano.
Un fuori programma con cui l’ammiraglio decide di chiudere il saluto alle autorità civili. Che il numero uno della Guardia costiera stia per dire qualcosa che lascerà il segno lo intuisce chiunque lo conosca. Una citazione non contenuta nel testo originario del suo discorso.
Rievoca il leggendario comandante siciliano Salvatore Todaro, che durante la Seconda guerra mondiale affondò in mezzo all’Atlantico la nave militare belga Kabalo, con a bordo ventisei marinai della coalizione antinazista, per poi salvarne l’equipaggio, sbarcandolo nelle Azzorre.
Al rientro, Todaro, ricorda Pettorino, venne «violentemente apostrofato» dall’ammiraglio alleato tedesco Karl Dönitz, che irrise l’ufficiale italiano definendolo «don Chisciotte del mare» e minacciando gravi conseguenze per aver tratto in salvo i nemici, mettendo a rischio il suo stesso equipaggio e, quel che più interessava all’uomo di Hitler, il sommergibile italiano in assetto da combattimento.
Il perché della disobbedienza lo spiega Pettorino, guardando negli occhi gli esponenti politici sulla tribuna e facendo propria la risposta di Todaro: «Noi siamo marinai, marinai italiani, abbiamo duemila anni di civiltà, e noi queste cose le facciamo».
Perché in quel momento, quando la nave di una bandiera ostile diventa ferraglia che affonda, quelle che indossano i nemici non sono più le divise di un altro colore, ma i panni inzuppati e pesanti del naufrago. Quel «chiunque» evocato anni dopo dall’ammiraglio Pettorino.
Per trent’anni, i ventisei belgi raccolti in mare e accuditi da Todaro con i sommergibilisti italiani si sono dati appuntamento a Livorno, sulla tomba del «Comandante» che li aveva combattuti e salvati. Lui non ce l’avrebbe fatta a superare la guerra. Il 14 dicembre 1942, due anni dopo l’affondamento del Kabalo, morì nel sonno, trafitto dalla mitraglia di uno Spitfire inglese in volo al largo della Tunisia.
Sandro Veronesi e Edoardo De Angelis – che ricordano la sua vicenda nel romanzo, poi trasposto sul grande schermo, intitolato proprio “Comandante” – non raccontano solo una storia di mare e di terra. Ma di uomini, intesi come i «pochissimi uomini» meritevoli di essere definiti tali dall’infallibile classificazione di Leonardo Sciascia.
«Rina carissima» scriverà Todaro alla moglie, «oggi è un giorno fausto. C’è un eroismo barbaro e un altro davanti al quale l’anima si mette a piangere: il soldato che vince non è mai così grande come quando si inchina al soldato vinto. Oggi noi e i nostri nemici, insieme, ci siamo salvati.» Per avere disobbedito e salvato «chiunque».
Per i tanti uomini della Guardia costiera l’imprevista considerazione di Pettorino è suonata come un incoraggiamento. «In questi ultimi anni, a invarianza di risorse umane disponibili» ha ricordato l’ammiraglio, «il corpo delle capitanerie di porto è stato chiamato a far fronte a uno sforzo inedito, quello del soccorso prestato in mare a migliaia di persone in pericolo di perdersi, operando su un’area ampia oltre la metà della superficie del mar Mediterraneo.»
Un impegno gravoso, «che abbiamo assolto nella piena consapevolezza di ben onorare il giuramento prestato, da ciascuno di noi, di osservare la Costituzione e le leggi». Dimostrando, una volta di più, quali siano quella vocazione e quell’abnegazione che non si possono barattare: «Uomini e donne che ogni giorno si impegnano per far sì che altri possano continuare a vivere».
Da quel momento è cominciata l’operazione politica per appropriarsi del controllo della Guardia costiera italiana, anche se le prime manovre forse risalgono a tempo prima.
“Le mani sulla Guardia costiera”, Nello Scavo, Chiarelettere editore, pp. 200, € 15,00