Chissà che mondo saremmo se quarant’anni fa i giornali avessero intervistato Davide. Davide che, quando guardo le foto della scuola, è l’unico che fosse solo compagno di classe – non amico, non cotta, non compagno di pigri pomeriggi ad ascoltare i dischi – di cui ancora ricordi il nome e il cognome.
Davide che ogni volta che guardo le foto di scuola un po’ mi vergogno, e vorrei andarlo a cercare e scusarmi da parte di tutti noi, e penso ma meno male che all’epoca nessuno usava la parola bullismo, le cose se non hai le parole per patologizzarle si superano più facilmente.
Ho pensato a Davide leggendo, sul New York Magazine, l’inchiesta che questa nostra derelitta epoca può permettersi, ovvero un articolo intitolato “The last kid in ninth grade without an iPhone”: chi è questo eroe postmoderno, questa vittima guantanamica, questo vessato ragazzino che, in prima liceo, non ha un telefono con la telecamera?
Un po’ come il bullismo che esiste solo se hai la parola per dirlo, i temi diventano tali solo se qualcuno li codifica per quello che una volta avremmo chiamato l’uomo qualunque, e ora definirei: l’osservatore beota che non è in grado di osservare niente se non gli metti le didascalie.
Il fatto che i telefoni con la telecamera (e la connessione a internet, ma è un fattore secondario rispetto alla telecamera: lo so che adesso pensate di no, ma gli storici mi daranno ragione) devastino i nostri cervelli è un’ovvietà che chiunque abbia una ’nticchia di spirito d’osservazione sapeva da anni. Ma adesso Jonathan Haidt (già coautore del fondamentale “The coddling of the American mind”, che vi spiegò che disastroso brodo di coltura fossero le università molto prima che foste in grado di capirlo) si è messo lì e ci ha scritto un libro, “The anxious generation”.
È bastato un libro su come i telefoni per così dire intelligenti hanno rincoglionito i puccettoni vostri, li hanno riempiti di insicurezze e di disturbi alimentari e chi più ne ha più aggiunga dettagli al disastro, e pure i giornali si sono svegliati: gli adulti si possono rincoglionire liberamente, ma puccettoni e animali domestici guai a chi ce li tocca; si sono svegliati, e vanno alla ricerca di casi da raccontare.
Tempo fa, un pomeriggio in cui pur di non lavorare avrei fatto proprio di tutto, ho fatto quel che faccio quando farei di tutto pur di non scrivere: mettermi a discutere sull’internet. Con un ventenne che riteneva un grave sopruso che ai concerti, in Italia, non si possano portare le batterie esterne per il cellulare.
Non lo sapevo (non sono una grande frequentatrice di concerti), ma mi sembra una scemenza, oltre che una mancata occasione di guadagno: le dieci sterline meglio spese della mia vita sono quelle che ho dato al banchetto che, fuori dal concerto di Madonna a Londra, mi ha noleggiato una batteria per il mio telefono morente. Però, forse perché il mio telefono è praticamente sempre scarico o smarrito tra i cuscini del divano o dimenticato a casa, mi faceva comunque ridere che per qualcuno l’idea che gli si scaricasse il telefono fosse il più temibile incubo.
Forse il ventenne aveva, come me, amici busoni che non avrebbero mai perdonato la mancanza d’una cronaca in diretta dal concerto di Madonna, ma comunque mi sembrava buffo. Ho iniziato a sbeffeggiarlo, e lui ovviamente non ha capito cosa dicevo (ha vent’anni), ovviamente mi ha dato delle risposte che mi hanno fatta vergognare di stare lì a farlo girare come criceto nella ruota pur di non lavorare («e se non posso chiamare i miei genitori perché mi vengano a prendere?»), ma soprattutto mi ha formulato un’obiezione che mi è parsa assurda: senza telefono, come trovo la strada di casa quando il concerto finisce?
C’è un’intera generazione che non ha mai vissuto senza le mappe nel telefono. Che non ha mai pensato di seguire la folla che la porterà alla prima fermata del metrò e da lì poi tornerà a casa. Che è nelle condizioni in cui ero io quella volta, avrò avuto dieci anni, in cui mi persi sulle piste da sci.
Vagai fino a trovare un rifugio, chiesi di telefonare, mi fecero chiamare a casa (a Bologna, nientemeno), e da Bologna qualcuno chiamò il gruppo con cui ero in settimana bianca dicendo qualcosa tipo «disgraziati, ve la siete persa, è al rifugio tal dei tali», e qualche adulto venne a prendermi. Forse sarebbero state meglio le mappe nel telefono: avrei evitato di dover telefonare frignando a casa. Però allora le mappe nel telefono non c’erano, e oggi che ci sono se entri in un rifugio a chiedere di fare una chiamata (interurbana, ma quello nessuno sa più cosa voglia dire) probabilmente arriva la buoncostume (in “Siccità” c’è una scena in cui Silvio Orlando, uscito di galera dopo decenni, chiede in un bar l’elenco del telefono, e lo guardano come un matto).
Mi ricordo che, qualche tempo dopo il tizio dei concerti usato come passatempo, Zadie Smith diede un’intervista al Guardian. Smith ha fatto della sua contrarietà ai cellulari teoricamente intelligenti quasi una militanza politica, e riferiva sdegnata che ogni volta che fa questa discussione c’è sempre qualcuno che obietta: e le cartine stradali? Quindi non era solo il ragazzino scemo con cui mi ero baloccata io: è un mondo di ragazzini scemi. Speriamo Netflix faccia presto un documentario sul Tuttocittà.
In un’epoca in cui tutti hanno i telefoni intelligenti, i casi da raccontare in seguito al libro di Haidt sono quelli che il telefono non ce l’hanno. Sul New York c’è pure quella che una volta si è persa in metrò perché, appunto, non aveva il telefono con le mappe. C’è quella che veniva presa in giro alle medie, ma ora che è in prima liceo no, non si permettono, ormai sono adulti. C’è quella che spia quando gli altri guardano i social, ma dice che non si strugge perché, non avendoli mai avuti, che ne sa (pure Hannibal Lecter diceva che si desidera «quello che si vede», mica «quello che si sbircia di soppiatto»).
Non c’è nessuno che a questi ragazzini chieda come fai a perderti in metrò, un posto disseminato di disegni della disposizione delle fermate, degli incroci con altre linee, un posto con molti più riferimenti e più semplificati di quanto lo siano le cartine stradali sul tuo telefono, allora è vero che i cellulari intelligenti hanno fatto diventare gli adolescenti più scemi.
Ai tempi in cui la strada si guardava sul Tuttocittà prima di uscire, gli accessori importanti erano altri. A un certo punto furono le Timberland, il che mi fa sempre molto ridere perché, se eravate vivi nel Novecento lo sapete, allora i negozi monomarca in provincia praticamente non esistevano. E quindi ci si passava la voce di chi avesse le Timberland, presto, sono arrivate alla Casa dello sport (che allora a Bologna era un negozio imprescindibile, adesso credo non esista più), ma ne hanno pochi numeri.
Adesso, che delle Timberland non importa più a nessuno, c’è un negozio tutto loro sotto alle Due torri, nel punto più centrale di Bologna, e io penso a noialtri che correvamo a cercarle tipo caccia al tesoro, e adesso sono lì in tutti i colori e modelli e se al loro posto ci fosse un kebabbaro sarebbe uguale.
Comunque, Davide alla Casa dello sport doveva essere arrivato tardi, e quindi fece l’errore che prima o poi in gioventù abbiamo fatto tutti: pensare che un modello che non era esattamente quello che andava di moda andasse bene uguale.
Quando arrivò in classe col modello di Timberland sbagliato, rendemmo la sua giornata un tale inferno che quelle scarpe non le mise più. I maschi dicevano che erano imitazioni (l’insulto più grave che si possa fare a un minorenne in contesto consumista è l’accusa d’indossare l’imitazione d’un marchio famoso), ma io sono certa fossero solo il modello di ripiego, che qualche commessa crudele gli aveva caldeggiato e lui ci era cascato. Avrà pensato «meglio di niente», porello.
Chissà con che scarpe venne a scuola Davide per il resto dell’anno, forse con delle Nike, che erano la novità di quel periodo, o magari con quei tragici stivali con l’anello laterale di cui ho rimosso il nome perché l’estetica anni Ottanta è un trauma dal quale il cervello tende a tutelarsi.
Quello di cui sono certa è che Davide non se lo ricordi, che questa storia me la ricordi solo io che prendevo appunti sui traumi degli altri sapendo che un giorno sarebbero diventati materiale; ma, se nessun giornale ritiene che la tua esclusione dal gruppo dei fighi della scuola sia grave, tu lo archivi come un episodio qualunque d’un’ordinaria adolescenza.
Nei ricordi di scuola nessuno è mai Danny Zuko: nessuno si descrive come il figo del gruppo, tutti sono sempre gli emarginati coi capelli sbagliati, ed è un vezzo, non una tragedia, e non lo è perché il nostro essere gli sfigati dell’ultimo banco non è mai finito sui giornali.
Oggi, che Amy March finirebbe in copertina come la povera ragazzina al cui brunch non si è presentata nessuna compagna di scuola, ogni inciampo è una tragedia, ogni inciampo è per sempre: tra dieci, venti, trent’anni gli archivi ti ripropongono quel che ormai sei per sempre. Per tutta la vita, essere il ragazzino con le Timberland sbagliate, la ragazzina senza cellulare, o quella il cui brunch è andato deserto. Ci racconti, signora ex più cretina del primo banco: come si sente, trent’anni dopo?