Iberica feniceLa Spagna è all’inizio di qualcosa di grande, di nuovo

Le Furie Rosse devono mettersi alle spalle i problemi extracampo e i troppi tentativi (finiti male) di imitare la generazione d’oro del passato. I nuovi talenti come Lamine Yamal a Nico Williams fanno sognare un altro ciclo vincente, diverso da tutti gli altri

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L’ultima volta che la Spagna aveva concesso il possesso palla agli avversari in una partita di un grande torneo era l’estate del 2008. All’epoca Barack Obama non era ancora stato eletto presidente degli Stati Uniti, il capo del governo spagnolo era José Luis Rodríguez Zapatero e il calcio non aveva ancora conosciuto la rivoluzione tattica portata dalle Furie Rosse e dal Barcellona di Guardiola.

Sabato scorso, contro la Croazia, la Spagna di Luis de la Fuente ha lasciato che fossero gli avversari a palleggiare, a muovere di più il pallone. Lo ha fatto in una partita vinta 3-0, con il risultato acquisito già all’intervallo. È chiaro che il singolo dato, di per sé, non spiega molto: è condizionato dalla dinamica della partita e dalla necessità di Modric e compagni di prendere l’iniziativa dopo i gol subiti. Però è già diventato il simbolo di una trasformazione – ancora in corso – della Roja.

Non è una questione ideologica o identitaria. È un discorso decisamente più pragmatico, nasce dal campo, dai calciatori. Soprattutto da Nico Williams e Lamine Yamal, ragazzini che non fanno quarant’anni in due e sono già indispensabili per la Roja. Sono le due ali d’attacco della Spagna, perfetti per un calcio più diretto e verticale, ma anche creativo, rispetto al palleggio cadenzato tipico del juego de posición. Con due esterni del genere e un centravanti che ama attaccare in campo aperto come Alvaro Morata è più facile accettare il palleggio avversario, compattarsi per aspettare e attaccare in campo aperto appena recuperata palla. È nato così il primo gol contro la Croazia: Rodri addomestica un pallone a metà campo, scarica su Fabián Ruiz e tutto il reparto offensivo parte dritto verso la porta avversaria alla massima velocità, a quel punto basta un filtrante calibrato bene per mandare Morata in gol.

Anche se la Nazionale di de la Fuente continua a fare più di mille passaggi a partita, e in qualche modo rimane sempre uguale a sé stessa in tante cose, dimostra di essere già un animale diverso dal passato. È un modo per assecondare le due stelline della squadra, ma anche per adeguarsi a un calcio che non può più essere vincente se fatto solo di controllo, possesso e palleggio. «È una cosa naturale, non possiamo vivere nel passato», ha detto Rodri durante il ritiro della Nazionale. «Luis vuole una squadra più verticale, più decisa nelle due aree, e ci dà molta libertà». Il mediano del Manchester City, pedina inamovibile e vicecapitano della Spagna, non lo dice, ma lo lascia intendere: è il contrario di quel che concedeva Luis Enrique, molto meno propenso a dare spazio all’improvvisazione dei singoli.

L’innesco di questa metamorfosi va ricercato nella sfida contro la Georgia durante le qualificazioni, lo scorso settembre a Tbilisi. La Spagna ha iniziato quella partita con Dani Olmo e Marco Asensio esterni, poi si sono infortunati e nel secondo tempo sono entrati Nico Williams e Lamine Yamal, al debutto in Nazionale maggiore. Lì è iniziato un festival di dribbling, accelerazioni e gol. Risultato finale: 1-7.

La nuova Spagna è una squadra quadrata, ordinata, pulita. E molto più che in passato può rinunciare al pressing – marchio di fabbrica delle migliori versioni negli ultimi anni – pur di non scombinare le linee in difesa. È la normalizzazione che ha portato de la Fuente da quando è stato nominato commissario tecnico, cioè dopo i Mondiali in Qatar di dicembre 2022. Mondiali particolarmente deludenti, chiusi con l’eliminazione agli ottavi contro il Marocco. E forse non è un caso che in quella partita le Furie Rosse hanno fatto più di mille passaggi, e il settantasette per cento di possesso palla. Prima di perdere ai rigori.

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Nella lingua spagnola c’è una parola che indica il tipico calciatore dribblomane e individualista, quello innamorato del pallone e delle giocate spettacolari: “chupón”. È un termine gergale, molto particolare, a un certo punto finito quasi in disuso perché in Spagna di giocatori così non se ne vedevano più.

La Generación de oro, quella che ha vinto due Europei consecutivi e i Mondiali del 2010, è diventata il simbolo di una rivoluzione che ha cambiato il calcio. I risultati incredibili della Spagna e del Barcellona di Guardiola hanno incanalato l’evoluzione del gioco verso uno stile fatto di possesso e passaggi, in cui il dribbling è visto come un azzardo concesso a pochi, un rischio da non prendere se non assolutamente necessario. Questo modello negli anni è stato imitato, aggiornato e superato. Però la Spagna, intesa come movimento calcistico nazionale, è rimasta vittima della trappola del primato: un sistema vincente viene confuso con una specie di ottimo paretiano da cui conviene non spostarsi mai. Accade in tutti i settori, lo sport non fa eccezione.

«Una volta ritirato definitivamente, e tardivamente, il tiqui-taca, che ci ha regalato cinque anni di gloria e dieci di torpore, la modernità è arrivata in Nazionale e l’unico dubbio è se lo spirito conservatore di Luis de la Fuente sia capace di comprenderla, di lasciare che la gioia fluisca», ha scritto Iñaki Díaz-Guerra su El Mundo.

Il modello di gioco della Spagna aveva iniziato a sgretolarsi con i Mondiali del 2014. Nell’ultimo decennio ha avuto qualche buona campagna internazionale, ma è sempre sembrata un’edizione minore di qualcosa che non c’era più. L’imitazione un po’ goffa di una grande opera.

Solo i ragazzi della Generazione Z sono riusciti ad aprire le porte del cambiamento. Nico Williams e Lamine Yamal sono i primi attori, ma ce ne sono altri intorno a loro. Nei ventisei chiamati da de la Fuente c’è ovviamente il classe 2002 Pedri, anche lui del Barcellona, così come l’elettrico centrocampista Fermín López (2003), e c’è Álex Baena, 2002 di cui si parla troppo poco perché gioca in una squadra non glamour come il Villarreal – è stato uno dei migliori assistman dell’ultima Liga. Per il resto l’età media della Spagna è ancora piuttosto alta, ventisette anni, a causa dei tanti veterani over-30. Ma mancano per infortunio i catalani Gavi (2004), Alejandro Balde (2003) e Pau Cubarsí, altro 2007, in difesa.

È curioso che la Roja stia vivendo un vero ricambio generazionale proprio ora che la squadra è guidata non da un tecnico visionario e vagamente eccentrico come Luis Enrique, ma da una specie di burocrate della Federcalcio che potrebbe essere inquadrato tatticamente come un conservatore. Negli ultimi dieci anni Luis de la Fuente è stato allenatore delle rappresentative under-18, under-19, under-21 e Olimpica. Ma proprio per questo conosce tutti i giocatori spagnoli più giovani e ha avuto gioco facile nell’accompagnare una trasformazione indispensabile per uscire dalla spirale negativa della Spagna.

Ovviamente De la Fuente non ha messo totalmente in discussione l’architettura tattica preesistente. Ha però saputo fare scelte tecniche e tattiche che in qualche modo sono anche politiche. Ad esempio ha sempre detto di non voler né poter rinunciare al delantero, al centravanti di razza, da qui la titolarità indiscussa e la fascia da capitano per Morata. Ma vale ancora di più per l’atteggiamento istituzionale e composto fuori dal campo: Luis Enrique era uno che non parlava con i media se non in conferenza stampa, piuttosto preferiva usare il suo profilo Twitch per delle lunghissime dirette in cui dialogava direttamente con i tifosi; de la Fuente invece è partito subito con le interviste esclusive, un approccio morbido e istituzionale, quasi da politico in campagna elettorale. «Sono orgoglioso di essere spagnolo, cattolico e amante delle corride», ha detto al quotidiano catalano Sport. Ci sono poche frasi più populiste per un ct della Nazionale spagnola.

Il suo stile ha certamente aiutato in un momento di caos nella Federazione spagnola, disarmata di fronte alle polemiche per il bacio non consensuale dell’ex presidente Luis Rubiales alla calciatrice Jenni Hermoso durante i festeggiamenti per i Mondiali vinti dalla Nazionale femminile. Oltre al lavoro di de la Fuente si è aggiunto quello dell’ex ct Vicente del Bosque, ormai asceso al ruolo di grande saggio del fútbol iberico. L’ex ct è stato nominato membro di un nuovo “comitato di normalizzazione, rappresentanza e supervisione” della Nazionale: un gruppo nato su impulso del governo per contrastare la tempesta mediatica causata dal caso Rubiales. «Nonostante i tentativi di far sembrare il contrario, l’ombra del regno di Rubiales incombe ancora sulla Federazione spagnola. Il suo successore, Pedro Rocha, è stato nominato nuovo presidente permanente ad aprile, senza nessun altro candidato in grado di raccogliere abbastanza sostegno per contestare la carica. Quindi Del Bosque dovrà essere un rispettato rappresentante del calcio spagnolo di fronte al pubblico», scrive The Athletic. In pratica il grande saggio è inattaccabile, serve da scudo contro le critiche.

La nuova Spagna, di cui a Euro 2024 vediamo ancora una fase embrionale, nasce, o rinasce, da uno scandalo di proporzioni gigantesche extracampo e dall’esigenza di normalizzare il post-Luis Enrique per le faccende puramente calcistiche. Il risultato è una Roja alla ricerca di certezze e stabilità, che per ora trova nel talento elettrico di Lamine Yamal e Nico Williams la sua forza e la sua identità. Il fatto che i due giocatori simbolo di questa Nazionali siano così giovani e già così importanti fa pensare a un progetto ancora in evoluzione. Il bello deve ancora venire.

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