È l’estate del 2013. Sono su un Frecciarossa tra Torino e Milano, non so bene cosa fossi andata a fare io a Torino, ma so quel che capisco nel vagone: sono l’unica che non stia tornando dal concerto di Vasco Rossi. Davanti a me, per dire, una ragazza ha mezzo testo di “Sally” tatuato su un braccio.
A un certo punto, da un attrezzo simile a quelli che si usavano nel Novecento, quelli per sentire le musicassette con le casse incorporate, quello che John Cusack tiene sopra la testa nel fotogramma più famoso di “Say anything…”, da uno di quegli affari esce una canzone di Vasco, non ricordo quale.
Ricordo però una cosa che ho capito solo col senno di moltissimo poi: quello è il momento in cui io, ignara passeggera di carrozza a cavalli, vedo passare la mia prima macchina, e – invece di capire che quello è il futuro – mi spavento e mi raccapriccio e mi dico santo cielo che orrore.
Ricordo il momento in cui alzo la voce e dico al tizio che aveva avviato la musica che eh no, però, che è quest’inciviltà: «Se vuole ascoltare la musica si mette le cuffie». Il tizio, che ha la comprensione dei dettagli che in genere troviamo nei commenti social, non pensa che gli stia dando del cafone ma che – cosa assai più grave – stia esprimendo dissenso per Vasco. Cambio vagone prima di venire linciata come spesso è accaduto agli infedeli nella storia delle religioni.
È la fine dell’estate del 2023. Sono passati dieci anni e molte ere per quanto riguarda l’inquinamento acustico nei luoghi pubblici. Ognuno di noi ogni giorno racconta o sente raccontare di Tizio che telefonava alla madre in vivavoce in metrò, Caio che guardava un video YouTube nella sala d’attesa del medico, Sempronia che con la sua videochiamata ha messo al corrente un’intera carrozza silenzio del Frecciarossa dei propri guai coniugali. Proprio come con le chat di classe, nessuno di quelli che si lamentano è mai colpevole: siamo tutti osservatori di orrende abitudini altrui, noi educatissimi conversatori sottovoce in piedi tra le due carrozze e unici innocenti in questa sozza società.
È la fine dell’estate del 2023 e la cosa più divertente di quei giorni è un vocale che Pierfrancesco Favino ha mandato a qualcuno, e quel qualcuno l’ha inoltrato così a chiunque che ora sta su centinaia di telefoni. Nel messaggio, inciso al festival di Venezia, Favino imita Guadagnino che parla male del festival. Fa molto ridere, e io voglio farlo sentire all’amica con cui sono a cena.
L’amica è una delle meno sceme delle mie amiche, ed è perciò con sconcerto che la guardo schiacciare play tenendo il telefono orizzontale davanti a sé, in modo che scatti il vivavoce. È uno di quei ristoranti silenziosissimi in cui tutto rimbomba, creati da architetti che sanno che il cibo farà schifo e creare con l’acustica un senso di soggezione ci farà alzare a fine cena senza protestare per aver mangiato poco e male.
Favino rimbomba, la mia amica lo ferma in preda al panico, io penso «ma sei scema che lo metti in vivavoce», lei mi chiede di abbassarle il volume, io lo abbasso pensando che a quel punto lo metterà all’orecchio come una persona normodotata sa di dover fare in un ristorante, e invece lei lo fa ripartire in vivavoce, solo che a quel punto è troppo basso per sentirlo, e io dico a me stessa «dunque sì, sei scema», e la cena finisce con l’amica probabilmente unica italiana, o comunque unica mia conoscente, a non aver potuto apprezzare il talento di Favino per le imitazioni.
È la primavera del 2024, è una domenica mattina, e in una strada del centro di Bologna camminiamo solo io e una signora. La signora sta parlando di alcune complicazioni chirurgiche d’una parente sua. Ne parla, a questo punto avrete già capito, in vivavoce; a voce altissima, perché un interessante dettaglio psicologico è che in vivavoce la gente pensa che l’interlocutore non la senta, e strilla. Nella strada deserta, sotto le finestre di gente che magari sta pure dormendo e sai le bestemmie, rimbomba tutto peggio che nei ristoranti fighetti.
Ora, io sono una grande utilizzatrice del vivavoce, quando sono in casa. Esso mi permette di appoggiare il telefono su un tavolo, su un lavandino, sul bracciolo del divano, e continuare mentre parlo a struccarmi, a versarmi da bere, a scrivere questo articolo. Il vivavoce serve ad avere le mani libere. Che senso ha il vivavoce se comunque devi reggere il telefono, solo che lo tieni orizzontale invece che verticale?
È in quel momento che capisco ciò che non avevo capito in ormai anni di lettura di articoli e post sull’annoso fenomeno del vivavoce, articoli e post in cui ci si chiedeva perché diavolo la gente non si portasse dietro delle cuffie, e che io leggevo pensando con un angolo del cervello che io non ho mai posseduto un paio di cuffie, mica l’alternativa è tra il vivavoce e le cuffie. E invece sì, capisco guardando l’ignara signora, ignara quanto lo era la mia amica quando cercava di ascoltare Favino: la gente ha dimenticato che il telefono si può tenere all’orecchio.
Non so come e quando sia successo: nonostante esista ampia pubblicistica in merito, mi pare ogni analisi sia falsata dal finto dualismo cuffie/vivavoce. Un articolo del Chicago Tribune del 2019 sconsiglia di dire a un altro passeggero di non usare il vivavoce «per ragioni di sicurezza», cioè perché magari quello ti dà una testata sul naso sentendosi leso nel suo diritto a far sapere i fatti suoi a tutto il vagone; mi torna in mente il controllore che mi disse di non dire io al passeggero nella carrozza silenzio di non videochiamare la moglie, perché chissà cosa poteva succedere, meglio andare a lamentarsi dalle autorità e poi ci pensano loro. Viviamo dunque in una società pericolosa per gli amanti della quiete da cinque anni almeno.
È altresì vero che la maggior parte di queste lamentele riguarda video che la gente guarda come fosse davanti alla tv di casa (quello per telefonare è un utilizzo ormai marginale del telefono), e in quel caso solo le cuffie risolvono. Oddio, a me è capitato di dover vedere subito una cosa quando mi trovavo per strada, e mettere il volume bassissimo e appiccicare il telefono all’orecchio, ma non è un metodo comodo per chi guarda abitualmente video.
I consigli sono tanti, in tutte le conversazioni in cui tutti sono vittime del fenomeno e mai mai mai nessuno lo alimenta. Il mio preferito è ovviamente quello d’intervenire: se qualcuno ha una conversazione anche privatissima in pubblico – con la suocera, col ginecologo, con l’amante – siamo autorizzati a intrometterci, a partecipare, a rispondere noi per loro conto a voce alta. D’altra parte è esattamente ciò che accade sui social.
Nessuno, però, s’interessa del problema antropologico su cui vorrei invece leggere sei o sette volumi di ricerche: quand’è stato che gli esseri umani, dopo una vita di telefoni prima fissi poi portatili tenuti sempre e solo all’orecchio, ha iniziato a considerare il cellulare una coppa di champagne o una sigaretta o un guanto da ballo di Meg March, bruciato che non lo puoi usare ma da reggere distante e orizzontale per fare scena, all’infuori, col polso rovesciato, e tutto il mondo partecipe della conversazione?