Qualche settimana fa la “verità” di un corpo infantile palestinese decapitato da un’esplosione nel corso di un attacco israeliano era opposta alle scarsità probatorie circa le mutilazioni praticate sui bambini durante il pogrom del 7 ottobre. E non era solo la fogna social a esercitarsi in quella comparazione: a ruota c’erano le inviate spacciatrici di video contraffatti e i reporter di guerra e di pace dal fiume al mare, gli uni e gli altri embedded nei fungibili studi del Porcaio Unico Televisivo dai quali spiegavano che le atrocità, «e persino le decapitazioni», ci sono da tutte le parti.
Dopo qualche settimana sono mucchi di altri bambini uccisi a essere distribuiti sui due piatti dell’equanime bilancia, lo strumento adoperato dalla moralità inquirente che si rifiuta di dimenticare che i bambini sono tutti uguali e che, se ci sono “due stragi”, dovrai pur dare la notizia che ci sono “due stragi”, come per esempio argomentava ieri Marco Cappato nella sua rassegna stampa a Radio Radicale.
Il noioso quadro circostanziale e le minuzie distintive non contano, nei trasalimenti davanti all’infanzia martoriata. In un caso era un’esplosione conseguente a un attacco mirato contro un dispositivo bellico ficcato dalle belve del 7 ottobre in mezzo ai civili; nell’altro caso erano tremila miliziani e civili che sgozzavano (non decapitavano, siamo seri) i bambini nelle culle o gli sparavano in faccia dopo aver sparato in faccia, davanti a loro, ai loro genitori; o viceversa, secondo la predilezione del macellaio di turno.
Due mesi dopo, l’altra sera, in un caso erano le vittime di un attacco israeliano ancora condotto contro una scuola non perché era una scuola, ma perché un’altra volta i terroristi l’avevano trasformata nel loro bunker, protetto dai civili usati comune sacchi di sabbia; nell’altro caso erano le vittime israeliane di cui a fatica si esplicita l’età infantile, si preferisce dire “ragazzi”, o “minori”, che però non giocavano a pallone accanto all’uscita di un tunnel, né attorno alle batterie di missili regolarmente apprestate, dall’altra parte, negli ospedali, nelle moschee e appunto nelle scuole della cooperazione internazionale in cui gli insegnanti spiegano ai bimbi palestinesi come sarà bello e ricco il loro futuro quando l’ultimo ebreo sarà ucciso.
Un punto di vista da cui ritenere equiparabili le stragi e le uccisioni dei bambini ci sarebbe, ma è quello che non assume quasi nessuno. È il punto di vista di chi ha titolo per considerarle tutte uguali perché riconosce che non sono uguali quelli che rispettivamente se ne rendono responsabili, né i motivi per cui se ne rendono responsabili.