Pochi argomenti hanno ancora il potere di dividere così radicalmente la stampa italiana – e non solo, ovviamente, i giornali più accanitamente schierati agli estremi opposti dello spettro politico – come le riforme della giustizia: non il fisco, non la sicurezza, non il lavoro, nemmeno l’immigrazione.
L’approvazione definitiva del disegno di legge Nordio, contenente l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, ma anche limitazioni alla custodia cautelare e all’uso delle intercettazioni telefoniche, si guadagna oggi ad esempio l’apertura di Repubblica. «Colpo di spugna», titola il giornale a caratteri cubitali, neanche fosse un colpo di stato. Seguono editoriali e interviste variamente apocalittiche, a cominciare, purtroppo, da quelle alla capogruppo del Partito democratico, Debora Serracchiani. Per fortuna non si tratta di un coro unanime.
Nel merito, tra i commenti che mi sembrano più equilibrati, segnalo quello di Massimo Adinolfi sulla Stampa, che ricorda come fino a oggi l’abuso d’ufficio abbia prodotto migliaia di processi, soprattutto sui mezzi di comunicazione, e pochissime condanne, e che introdurre l’interrogatorio prima di decidere la custodia cautelare o la collegialità della scelta, così come la limitazione alla possibilità di appellare le sentenze da parte del pm, sono principi di civiltà a garanzia di tutti i cittadini. Ma al tempo stesso che questa maggioranza (e questo ministro, aggiungo io) si mostra molto liberale su alcuni argomenti e molto meno su altri (quindi, aggiungo sempre io, non si mostra liberale affatto): «Vedi, soprattutto, alla voce immigrazione, ma vedi pure, in materia di giustizia, all’ansia di introdurre nuovi reati: e che, si toglie l’abuso d’ufficio dopo aver introdotto il variopinto reato di rave party?».
D’altra parte, le preoccupazioni per il quadro politico generale e l’atteggiamento del governo nei confronti di qualsiasi contropotere, a cominciare dalla magistratura (per non parlare della stampa, e del servizio pubblico in particolare), sono tutt’altro che infondate. Ma non credo che aiuti confondere ogni argomento in una generica denuncia di autoritarismo. Anzi, direi che la capacità di distinguere nel merito e riconoscere anche le rare volte in cui le scelte di governo poggiano su qualche buona ragione (come per l’abolizione del Superbonus, o il sostegno all’Ucraina), renderebbe più credibile la denuncia delle pulsioni autoritarie e illiberali, che ci sono eccome. Anche perché tali pulsioni, nel dibattito in questione, non si ritrovano certo nel fronte garantista.
Il nostro dibattito pubblico sulla giustizia è non per niente, da trent’anni, una collezione di tutti i più diffusi tipi di fallacia logica individuati dalla mente umana sin dai tempi di Aristotele: dall’appello all’autorità, ovviamente sempre quella dei pubblici ministeri e dei giuristi schierati a loro sostegno, all’argomento del piano inclinato, capace di portare in un attimo l’ignaro spettatore dal cavillo più insignificante all’apocalisse, passando naturalmente per tutte le forme più estreme di argomento ad hominem nei confronti di qualunque giurista, giornalista o politico che si azzardi a sostenere tesi diverse da quelle dell’Associazione nazionale magistrati, squalificato in partenza come amico di corrotti e mafiosi. Un manicheismo che parte dalla rimozione di un dato di fatto fondamentale, e cioè che il rapporto tra politica e giustizia, in democrazia, è sempre, almeno in una certa misura, anche lo specchio di un «Conflitto tra poteri», per usare il titolo di un libro di Marcello Flores e Mimmo Franzinelli, recentemente pubblicato dal Saggiatore, di cui consiglio vivamente la lettura.
Questo è un estratto di “La Linea” la newsletter de Linkiesta curata da Francesco Cundari per orientarsi nel gran guazzabuglio della politica e della vita, tutte le mattine – dal lunedì al venerdì – alle sette. Più o meno. Qui per iscriversi.