Adolescenza e identità nazionaleL’Ungheria nel film “Una spiegazione per tutto”

Gábor Reisz ci porta nell’Ungheria odierna, dove un adolescente affronta le pressioni scolastiche e familiari durante la maturità: «La pellicola è stata menzionata dal sindaco di Budapest nel suo discorso di fine anno. Sarei stato molto felice se anche Orbán l’avesse vista, essendo lui il primo responsabile dell’attuale polarizzazione»

Millennial, Gen Z, Alpha: nonostante le differenze generazionali, c’è qualcosa che non cambia mai. L’adolescenza, con i suoi tumulti emotivi, sa essere un vero inferno. A quindici anni è più comune guardarsi allo specchio e non avere la minima idea di chi si è, piuttosto che il contrario. Gli anni del liceo non migliorano la situazione, e poi, all’improvviso, arrivano i tanto attesi diciotto anni con la loro promessa di libertà assoluta: «Ora puoi essere tutto ciò che desideri», ti dicono. Ma cosa desideriamo? Proprio questa infinita possibilità è spesso ciò che ci spaventa di più. In risposta a questa pressione, entriamo in una sorta di criogenesi emotiva, dove galleggiare tra i propri pensieri diventa un’abitudine. 

Da adolescenti si vive “dentro” più che fuori, sospesi in una nebbia di insicurezze, aspettative ma soprattutto ideali elevati, che non sempre sono condivisi dalla maggioranza. E poi, eccola lì, la maturità scolastica, quel termine che i docenti stringono tra i denti dal primo anno, l’argomento con cui, volenti o nolenti, dominano sui nostri stati d’animo, diventare improvvisamente realtà. Davanti a noi si materializza un enorme iceberg, dietro il quale sappiamo esserci un orizzonte vastissimo, ma che a malapena riusciamo a intravedere. Possiamo solo aggirarlo, assaporando il dolce e l’amaro per ogni passo che avanziamo.

La narrazione dominante della maturità è quella di una linea di demarcazione tra spensieratezza e responsabilità, leggerezza e dovere, tra un presente che non è mai stato veramente nostro e un futuro di cui ignoriamo tutto. Più tardi impareremo che la confusione è una risposta naturale alle tempistiche forzate – e non una stranezza – e che la nostra identità non conosce mai un’unica maturità ma molteplici versioni, che nascono e si alternano continuamente in risposta alle contraddizioni sociali, economiche e politiche circostanti. E laddove ci sentiremo in pace con i compromessi che avremo scelto, avremo davvero trovato il nostro posto. Se solo qualcuno ce lo dicesse prima. 

In qualche modo l’adolescenza rimane impressa in noi, indelebile, tra ossa e nervi. Ne sono la prova tutti quei film e romanzi che con i loro giovani protagonisti, sanno far vibrare quelle vecchie corde. Tra questi “Una spiegazione per tutto” (Explanation for everything), il nuovo lungometraggio del regista ungherese Gábor Reisz, con protagonisti Adonyi-Walsh Gáspár, István Znamenák András Rusznák. Il film – disponibile dal 27 agosto sulla piattaforma “IWONDERFULL PRIME VIDEO CHANNEL”, piattaforma in streaming di I Wonder Pictures – è ambientato nell’Ungheria odierna governata da Orbán, ed esplorando il “peso” della storia e del nazionalismo sui giovani, offre uno spaccato della società ungherese, polarizzata e divisa.

«Sai chi è stato bocciato in questa famiglia? Nessuno», si sente ripetere Ábel dal padre conservatore mentre si prepara all’esame di maturità. Una pressione costante e tagliente. Ábel cerca di concentrarsi, ma il suo cuore è preso dai tormenti della sua età, tra cui l’amore non dichiarato per l’amica Janka. All’esame orale, il ragazzo si presenta indossando l’abito della celebrazione del 15 marzo (anniversario della rivoluzione ungherese del 1848-49 contro il dominio degli Asburgo, che rappresenta la lotta per l’indipendenza e la libertà nazionale), su cui è appuntata la spilla con i colori della bandiera ungherese, che rappresenta appunto l’appartenenza alla nazione: ne nasce un malinteso verbale con il professore di storia Jakab, progressista. L’esame va male e per evitare la delusione del padre, Ábel accusa il suo docente di averlo bocciato ingiustamente, accendendo così la miccia di uno scontro di ideali che si estende a macchia d’olio, diventando così un caso mediatico. 

https://youtu.be/xsxsjd47AEE?si=cvrltUi1M8Cl2aze

«L’esibizione delle spille da parte dei nazionalisti durante gli eventi e le manifestazioni di partito ha cambiato sensibilmente il significato di questo simbolo negli ultimi vent’anni», commenta il regista Gábor Reisz, e continua: «Se un tempo rappresentava l’indipendenza ungherese e il legame con il Paese, oggi chi la indossa è considerato un sostenitore della nazione e chi non la indossa ne è, invece, un oppositore. La situazione si è aggravata a tal punto che ogni raduno di amici o parenti sfocia presto in una presa di posizione e, di conseguenza, la gente è sempre meno interessata all’opinione altrui e ad ascoltarsi l’un l’altro. Sono convinto che, se la normale comunicazione umana cessasse, nessuno potrebbe crescere».

Acclamato all’ottantesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia dove ha vinto il premio “Orizzonti” come miglior film e ottenuto il plauso della critica, “Una spiegazione per tutto” racconta con una semplicità toccante come tutto, a quell’età, possa far male. Ancor di più in un Paese diviso, dove comunicare e farsi ascoltare è la sfida più grande. La mia intervista a Gábor Reisz, approfondisce proprio questo: l’intenso legame tra l’adolescenza,  la ricerca di sé e la memoria nazionale, coraggioso protagonista del suo film.

Le domande, nel tuo film, feriscono. Ci spieghi meglio che emozioni e tensioni entrano in gioco – non solo nella finzione, ma anche nella vita?
«Per me, finzione e vita reale si mescolano sempre in un’opera d’arte. È molto difficile separarle, e in genere non cerco mai di scindere da questo “tessuto misto”, perché è proprio questo che mi piace della scrittura o del fare film: la capacità di creare un mondo unico. Il mio dolore è definito principalmente dalla perdita di mio padre, con cui ho sempre avuto un rapporto affettuoso, ma abbiamo anche avuto innumerevoli discussioni e dibattiti politici e ideologici. Quando l’ho perso, ho capito che non avevo mai voluto comprenderlo; volevo solo convincerlo. Durante il processo di scrittura, ho capito che, sebbene le nostre realtà fossero le stesse, o almeno simili, le nostre verità erano sempre diverse».

Nel tuo film la politica è un argomento che viene trattato dai vari personaggi con rabbia, insofferenza, disinteresse e anche un certo opportunismo. Ci racconti i pensieri a cui hai fatto riferimento per creare un’atmosfera così caleidoscopica e divisa?
«L’idea iniziale del film era fondamentalmente la sua trama. Mi capita raramente – e finora è successo solo con i cortometraggi – che la trama mi venga in mente immediatamente. Tuttavia, la struttura e il modo in cui abbiamo costruito la storia di “Una Spiegazione per Tutto” hanno fatto parte di un processo più lungo, affrontato con la mia co-sceneggiatrice, Éva Schulze. Mentre passavamo da un personaggio all’altro, sentivamo che fosse importante presentare varie versioni di come le persone si rapportano alla politica. Naturalmente, anche questo non copre l’intero spettro, ma il nostro obiettivo era creare un ritratto sociale più ampio possibile, poiché è veramente difficile discutere del sistema in sé, della manipolazione, della natura bipolare del paese e della tensione costante che questi causano»

Sei nato nel 1980. Come vivevi all’età di Ábel la memoria nazionale, la responsabilità sul presente e il desiderio sul futuro?
«Era un mondo molto diverso. Ho vaghi ricordi del socialismo e ricordo chiaramente l’atmosfera del 1989, quando in Ungheria ci fu il cambio di regime e si formarono i partiti democratici. So che spesso la gente tende a romanticizzare il passato, ma ricordo che i dibattiti erano molto più consistenti rispetto a oggi. Allo stesso tempo, c’era un’immensa povertà e iniziò un processo che definisce ancora il nostro sistema attuale: molte persone vicine al regime divennero i primi partecipanti alla privatizzazione e, di conseguenza, queste persone oggi costituiscono la fascia alta della popolazione. Durante il socialismo, la gente parlava della nazione con timore, quindi vivere l’identità nazionale è stato davvero memorabile; non eravamo solo un altro paese del Comecon, eravamo l’Ungheria. Per me, l’Occidente e l’Unione Europea sono sempre stati il punto di riferimento, come lo erano praticamente per tutti i partiti. Tuttavia, negli ultimi anni, il nostro governo di destra ha convinto i suoi elettori che dobbiamo allinearci con l’Oriente, principalmente con la Russia».

I tuoi personaggi, mi riferisco ad Ábel ma anche a György ed Erika (la giornalista che fa diventare l’episodio dell’esame uno scandalo nazionale), sembrano vivere costantemente separati, persi nel proprio mondo di ideali e valori. Sono amati, ma spesso soli. Perché, e soprattutto è una condizione immutabile?
«È una domanda interessante, non ci ho mai pensato. Ovviamente ci sono numerose ragioni drammaturgiche, ma in tutta onestà credo che si tratti di decisioni prese nel momento della scrittura che posso spiegare solo in modo piuttosto profano e idiota, riflettendo lo stato d’animo in cui mi trovavo. Naturalmente, se vado un po’ più a fondo, la storia dell’amore adolescenziale senza speranza, per esempio, viene direttamente dalla mia infanzia. Anche se non l’ho mai ammesso a me stesso, probabilmente mi piaceva questa condizione; c’era qualcosa di cui soffrire e da cui creare. Tornando al tema, la mia intenzione era soprattutto quella di ritrarre il personaggio del giornalista come particolarmente solitario, perché volevo che lo vedessimo come un outsider». 

Le vicende, nel tuo film, si innescano a partire da una domanda («Perché indossi la coccarda nazionalista?»).  Il personaggio di Jakab, infatti, pur possedendo conoscenza e buone intenzioni, urta la sensibilità di chiunque. Quando, secondo te, una domanda finisce d’essere un espressione del desiderio di conoscenza e inizia a essere un’offesa?
«Istruendo l’attore Rusznák András, che interpreta l’insegnante, ho sottolineato che si trattava di una domanda che vuole essere d’aiuto, un tentativo di scuotere lo studente dal suo blocco quando vede che non riesce a pronunciare una sola parola. L’insegnante dimentica che una seduta d’esame può essere particolarmente delicata, perché c’è un esaminatore, un interrogatore e un esaminato; quindi,  quindi, una delle parti è chiaramente sotto una forte pressione. Comunque è la situazione politica a generare davvero questa situazione assurda. Devo aggiungere che se oggi mi avvicinassi a qualcuno per strada o anche solo chiedessi al mio vicino perché ha esposto la bandiera nazionale sul suo balcone quando non è una festa nazionale, potrebbero facilmente offendersi. È una questione di fede, e credo che porre domande o discuterne in questo modo debba essere affrontato con molta cautela».

Quel che desidera Ábel, è lo stesso che desideri tu? Mi spiego meglio… vorrei sapere se nonostante le constatazioni, le fratture, ci sia ancora spazio per il sogno.
«Vivere liberamente senza pressioni politiche. Suona terribilmente ingenuo, ma è quello che la gente desidera; non conosco nessuno che non vorrebbe qualcosa di simile. Da un certo punto di vista, trovo ridicola anche l’appartenenza a un partito, dove a tutti viene detto cosa dire alla stampa e cosa no. Di conseguenza, tutti ripetono le stesse frasi, slogan e motti come pappagalli. In questo modo si perde il pensiero individuale, perché dietro il pensiero individuale ci sono persone vere che, se sono oneste, riconoscono anche le loro debolezze. Ma questo è impensabile nella politica ungherese. Così, siamo arrivati al punto in cui un uomo non può nemmeno piangere. Estremamente imbarazzante».

Ábel sembra sentirsi felice e libero solo quando sfreccia in bicicletta o corre da solo. La gioventù ungherese vuole liberarsi da qualcosa o da qualcuno, come il tuo protagonista?
«Non ho in alcun modo la pretesa che Ábel rappresenti l’intera gioventù ungherese di oggi, perché ad esempio molti studenti delle scuole superiori partecipano attivamente alle proteste. Ciò che mi preoccupa, più in generale, è l’immensa pressione che il sistema educativo esercita sui giovani a questa età. Devono prendere così tante decisioni all’improvviso, e sembra essere un peso schiacciante. Inoltre, l’istruzione superiore ungherese non prepara gli studenti alla vita; questi al contrario recitano il programma di studio e non pensano in modo critico. Spesso questo è il periodo in cui ci si innamora per la prima volta, semplicemente perché biologicamente ciò che accade nel nostro corpo è come un’esplosione. È praticamente un periodo completamente caotico, quindi sì, ogni tanto è bene evadere da esso, anche solo per un giro in bicicletta».

Nel finale, il protagonista si allontana dalla terra e nuota verso il lago, verso la natura. Sembra ritrovare per un attimo la serenità. È possibile solo abbandonando le ideologie?
«In realtà, anche questa potrebbe essere considerata una sorta di ideologia, ma è davvero liberatorio dimenticare chi siamo e dove siamo diretti e vivere semplicemente il momento o la libertà. È un’euforia che diventa sempre più difficile da raggiungere con l’età. Il senso di libertà che ho provato a diciotto-diciannove anni non è nemmeno paragonabile a quello che provo ora. Oggi percepisco le cose “in un certo senso” e “relativamente a qualcos’altro”».

A chi hai pensato maggiormente, scrivendo il film?
«A mio padre, ai miei insegnanti, ai miei cari.

Com’è stato accolto il film in Ungheria, e in generale a chi speri piaccia maggiormente?
«In Ungheria, è stato uno dei film ungheresi più visti lo scorso anno, con oltre novantamila spettatori, superando tutte le nostre aspettative. Vale la pena di distinguere tra media affiliati al governo, di opposizione o indipendenti. In questo caso, i primi hanno a malapena coperto il film, dato che non ha ricevuto alcun sostegno statale, e hanno subito cercato di ritrarlo come propaganda dell’opposizione. Eppure, anche da quella prospettiva, sono arrivate recensioni positive. Ho capito che ogni film deve avere una missione. La nostra era quella di risvegliare un po’ le persone, affinché, nonostante l’odio generato dalla macchina della propaganda, non dimenticassero che dall’altra parte ci sono persone che possono essere comprese; ci vuole solo molto più tempo ed energia che odiare. Ho ricevuto più feedback dalla sinistra e il sindaco di Budapest ha persino menzionato il nostro film nel suo discorso di fine anno. Sarei stato molto felice se anche Viktor Orbán avesse visto il film, perché molti sono responsabili dell’attuale situazione di polarizzazione, ma senza dubbio il primo ministro è tra i leader. Tuttavia, ho dovuto rendermi conto che, anche se l’avesse visto, sarei stato l’ultimo a saperlo»

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