Ci sono libri che lasciano un’impronta duratura in chi vi si accosta. E tanto più suscitano interesse, quanto più palpitano della vita dell’autore, quanto più aprono finestre su un’intimità altrimenti ignota, quanto più riducono, in questo modo, le barriere d’estraneità con il lettore. Fra i molti pubblicati nella primavera appena trascorsa uno, più di tutti, è subito apparso tale. Si tratta di “Confiteor” (Piemme, aprile 2024, pp. 336, euro venti), memoriale di una penna raffinata e arguta quale Piergiorgio Paterlini, fresco del settantesimo compleanno, è e sa di essere. Insomma, parafrasando il plautino nomen atque omen, un titolo un destino.
Sbaglierebbe però chi pensasse di trovarsi di fronte a un’autobiografia. Per capire cos’è “Confiteor”, possono aiutare le parole che Paul Auster, il geniale autore della “Trilogia di New York” recentemente scomparso, disse a David Grossman: «I miei libri biografici non sono autobiografie. Non è tanto la storia mia che m’interessa, ma usare le mie esperienze per pormi delle domande sul mondo». (“Vite che sono anche le nostre”, ne “La Lettura” del 2 febbraio 2020). Lo stesso vale per Paterlini. Nello scrivere la sua ultima opera gli è soprattutto interessato raccontare la persona che è diventato e i passaggi salienti attraverso i quali è diventato questa persona, vivendo, come lui stesso ama scherzosamente dire, nove vite e tre secoli. Nato nel ‘54 a Castelnovo di Sotto, comune della Bassa Reggiana, ha infatti avuto un’infanzia non dissimile da quella di un bambino di fine Ottocento; catapultato con l’adolescenza e la giovinezza nel Novecento dei movimenti, è infine approdato, nella maturità, al magmatico secolo ventunesimo. E sono già tre lustri che ne vive la caratteristica fluidità e i continui mutamenti.
“Confiteor” è dunque un romanzo di formazione, ma lo si potrebbe anche ricondurre più propriamente a quel genere letterario della confessione che, anticipato in un certo senso dal profeta biblico Giobbe e inaugurato da Agostino d’Ippona, è stato magistralmente illustrato negli anni ’40 dalla filosofa andalusa María Zambrano. E induce a fondatamente pensarlo già lo stesso titolo, che, pur essendo l’incipit dell’atto penitenziale della Messa, non ha nulla a che vedere con la liturgia e meno che mai con la confessione sacramentale. Paterlini è un agnostico militante, come ama definirsi a più riprese nella sua opera, e in quanto tale non ha la fede né ne sente la mancanza. Eppure, su di lui, che ha ricevuto un’educazione profondamente cattolica ed è stato in seminario fino al primo liceo, il tema di Dio continua a esercitare un insopprimibile fascino.
L’autore di “Non essere Dio”, l’autobiografia scritta a quattro mani con Gianni Vattimo ed edita nel 2015, racconta spesso in “Confiteor” la propria fatica a non accettare il sapere di non sapere di socratica memoria e, insieme, quel senso di limitatezza umana derivante dal non essere Dio. E con Dio, a differenza del patriarca Giacobbe che vi lottò una sola notte, egli, come i grandi mistici, fa a botte da tutta la vita (cfr. pagina 23). Non a caso osserva che «il silenzio di Dio – se Dio esiste – è una vera carognata. Almeno per quello che ne possiamo capire noi, qui. E i Grandi Mistici, che ululavano nella notte, dalle loro celle, dalle loro grotte, e supplicavano e supplicavano e supplicavano e bestemmiavano – si fa per dire – un segno, una risposta, una voce, qualcosa che non arrivava e non è mai arrivata, e sentivano non solo l’anima ma la carne lacerata da questo silenzio cui non si rassegnavano, lo sapevano bene, e avevano ragione» (pagina 28).
Ma non solo. È infatti da tutta una vita, o almeno dall’età di undici anni, che Paterlini lotta con la paura della morte al punto tale da confessare di non sapere e di chiedersi se «lo spaventi di più» una tale idea o quella «dell’eternità» (pagin. 21). Uno sgomento esistenziale, che gli deriva dalla famiglia – una famiglia, la sua, contadina e tradizionale, ottocentesca per così dire, ansiosa e ansiogena – guidata dalla figura matriarcale della nonna paterna Adalgisa. Di lei lo scrittore ricorda con cruda vividezza il dispotismo, la cattiveria, la ferocia esibita, che gli avrebbero però instillato col tempo un benefico odio verso ogni forma d’ingiustizia e un camusiano senso d’insopportabilità del dolore altrui.
In “Confiteor” si dispiega pertanto tutta la riconoscenza dell’autore verso il prossimo, l’esistenza, la bellezza del mondo e, più generalmente, verso la vita. Una vita, la sua, molto fortunata grazie anche a numerosi e significativi incontri. Tra i tanti maestri, che l’hanno segnato in positivo, Paterlini menziona innanzitutto Ignazio Silone, da lui personalmente conosciuto nella primavera del 1977. E ancora un mito dell’adolescenza e del ciclismo come Gianni Motta, un cantautore e poeta come Fabrizio De André, un fuoriclasse del giornalismo come Luigi Pintor. Sono loro che gli hanno cambiato e, in un certo senso, salvato la vita insieme con lo sport prediletto, il basket.
In “Confiteor” larga parte è poi riservata alla dimensione esistenziale dell’omosessualità. L’autore di un long seller d’insuperabile bellezza qual è “Ragazzi che amano ragazzi” (ne è prevista una nuova edizione in settembre), la cui unione civile con Marco Sotgiu, l’1 agosto 2016, è stata la prima celebrata in vigenza dei decreti attuativi della cosiddetta legge Cirinnà, tocca vette di alta liricità quando racconta d’aver «scoperto di essere gay» scoprendosi «innamorato […] in quarta ginnasio» (pag. 254). A un iniziale momento di terrore subentra un senso di stupefazione e felicità, miste a infelicità di «non poter avere» chi amava.
«Ma, allora come ora, non mi bastava – spiega Paterlini – stare bene con me stesso. Volevo andarci in fondo. Niente sconti, niente scorciatoie, soprattutto con la mia coscienza. […] Ero il giudice di me stesso più duro, implacabile, inflessibile che si potesse immaginare. Dicevano che era un peccato e una malattia. Io volevo sapere se era vero. Non era vero. Non era vera nessuna delle due cose. Non ero né un peccatore né tantomeno un malato. Fine. Ci ho messo una vita a scoprire che non tutti provano il mio stesso tipo di amore, non l’omosessualità, ma questo genere di passione, mi sembrava impossibile, eppure era, è così. Solo per questo dirò che per chi ha la fortuna di averlo conosciuto, nessuna delle mie parole servirebbe. A chi non ha avuto questa fortuna, un milione di parole non servirebbero a nulla» (pp. 255-256). Osservazione, questa, quanto mai pertinente soprattutto alla luce di polemiche recenti come quella sollevata dall’ex senatore leghista Simone Pillon contro lo spot del portale immobiliare Idealista. Ma questa è tutta un’altra storia.