Philippe Kratz, classe 1985, è l’enfant prodige della coreografia contemporanea. Nato in Germania, a Leverkusen vicino Colonia, da anni ha scelto di vivere in Italia, a Reggio Emilia. Il 2024 lo vede molto impegnato: dalla collaborazione con il drammaturgo Fabio Cherstich al Teatro Romano di Spoleto e al Festival Torinodanza, alla ripresa di un suo lavoro al Teatro alla Scala.
Caratterizzato da un approccio olistico alla danza, la sua visione dell’arte è globale: il corpo è il punto di partenza per un’indagine spirituale, dove il movimento diventa lo strumento rivelatore che combina danza, musica e drammaturgia in modo unico. Dopo anni da danzatore l’attività di coreografo ha dato voce alla sua inquietudine, che racconta fondendo movimenti convulsi, pieni di scatti a forme sinuose e a un’espressività struggente che ricerca con gli interpreti dei suoi pezzi. Meticoloso e preciso, la scelta dei danzatori è uno dei momenti più importanti del suo lavoro: saranno loro a determinare l’efficacia del racconto, che traspare chiaro in ogni sua opera, dalla trama sempre lineare e avvincente. Per Philippe Kratz, infatti, l’obiettivo principale della danza è comunicare più che trasmettere emozioni. L’abbiamo intervistato per scoprire com’è arrivato a questa forma di arte così sintetica e pregnante.
Quanto è stata importante la famiglia per la tua carriera?
La mia passione per la danza è nata all’interno della mia famiglia, che viveva tra Leverkusen e una piccola cittadina vicino Wiesbaden, nella Germania rurale. Sono cresciuto solo con mia madre, una donna liberale e curiosa, che ha sempre incoraggiato il mio interesse per l’arte, e così ho iniziato a danzare fin da giovane. Mia madre mi ha sostenuto anche quando ho capito che volevo “vivere di danza”: avevo sedici anni quando sono stato per un anno a Montreal e ho cominciato a studiare danza classica. L’esperienza in Canada è stata fondamentale. Ho iniziato un percorso più serio e, tornato in Germania, mi sono trasferito a Berlino. Di fatto, da quando ho sedici anni non vivo in casa per seguire la mia passione.
E poi sei andato oltre la danza classica. Ci racconti come e perché l’hai fatto?
Entrare a far parte del Ballett Dortmund in Germania occidentale mi ha offerto stabilità e un repertorio variegato. Tuttavia, dopo due anni, ho sentito il bisogno di esplorare un approccio più contemporaneo alla danza. Il punto di svolta importante è stato l’incontro con il Tanztheater di Pina Bausch a Wuppertal. La mia insegnante di danza, Suheyla Ferwer, era fortemente influenzata dall’approccio di Bausch, che comprendeva non solo il movimento ma anche il canto e la recitazione.
C’è un detto di Pina Bausch: «La danza inizia dove le parole non esistono più». Cosa significa per te?
È una frase che sento mia e che ha determinato tanto di ciò che sono e che sarò; significa che la danza è un linguaggio universale che trascende le parole. Richiede una grande attenzione tra chi esprime un concetto, il coreografo, e il danzatore o la danzatrice. È un processo in continua evoluzione, dove i lavori coreografici possono trasformarsi attraverso l’interpretazione e l’esecuzione di diverse generazioni di ballerini. Per di più, penso il movimento sia uno strumento incredibile per esprimere idee fondamentali della nostra esistenza: il corpo ci áncora nel qui e ora. È estremamente potente il fatto che esista solo nell’adesso e poi non ci sarà più.
Mentre tanti giovani scappano dall’Italia in cerca di fortuna, tu hai trovato la tua dimensione nel nostro Paese. Com’è successo?
Esatto. Nel 2008 mi sono unito alla compagnia Aterballetto a Reggio Emilia, su invito della direttrice Cristina Bozzolini, che ha segnato profondamente il mio percorso artistico. Questa esperienza mi ha permesso di esplorare un nuovo approccio alla danza, inizialmente basato su elementi classici ma poi sviluppatosi sempre di più in chiave contemporanea: era quello che stavo cercando e che solo in questa città ho trovato. È stata un’opportunità per comprendere la danza come forma di espressione intima e relazionale. È stato anche un mio modo personalissimo di esplorare il mondo e conoscere paesi e culture diversi, perché la compagnia viaggia tuttora moltissimo. Quindi c’era anche la sfida del conquistare un nuovo pubblico a ogni spettacolo. Era molto stimolante per me.
In Italia però sei anche riuscito a diventare coreografo: sono due mondi distanti?
No. Sono due aspetti della danza complementari e che a volte si sovrappongono, anche se raramente sono un danzatore delle mie coreografie, ma è una mia scelta. Il coreografare per me è stato un momento di passaggio, di crescita e di sfida. Dal 2010 al 2017, mentre ancora la mia attività principale era quella di danzatore, ho iniziato a creare pezzi coreografici che sono stati inseriti nel repertorio di Aterballetto. Questo ha avviato in me un percorso di ricerca e comprensione del corpo e della relazione tra movimento e concetto.
Cosa significa allora per te la danza?
Danzare è relazione e scambio. Non si danza per trasmettere emozioni, ma per farle vivere e viverle insieme. La danza è un lavoro di grande squadra e reciproca ricerca: c’è un coreografo che pensa a un’idea complessiva, ma ci sono danzatori interpreti, musicisti, compositori, light designers e il pubblico, che si emoziona e ti emoziona mentre danzi.
Parlaci del passaggio alla coreografia. Mi sembra che alla base ci sia la collaborazione con Ivana Mastroviti con cui hai vinto il concorso di Hannover.
Nel 2018 stavo vivendo un momento che potrei definire noioso, perché mi sentivo bloccato nella carriera. Forse è stata la mia fortuna, perché ho avuto modo e bisogno di ripensare a me stesso, a ciò che veramente volevo fare: esprimere una mia idea di danza e non soltanto più accettare passivamente di interpretare coreografie altrui: bellissimo, ma volevo un movimento che interpretasse il mio linguaggio. Così, insieme a Ivana Mastroviti, ho creato un duetto intitolato “O”. Questo pezzo, ispirato a una conferenza di Hanson Robotics a Hong Kong, esplorava il concetto di eternità e la possibilità di comunicare toccandosi per sempre. Se è innegabile una dimensione celebrativa, questo lavoro è importante nella misura in cui affronta anche il tema della paura. C’è un riferimento scenografico chiaro a “Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick. Le reazioni positive ricevute al Festival sono state un momento decisivo per me che mi hanno spinto a continuare la mia ricerca. Così dal 2021 mi dedico interamente alla coreografia.
Cosa ti manca del danzare?
Senz’altro il piacere di muoversi, come ho fatto io per molti anni in Aterballetto, all’interno e insieme a un gruppo. Vivere i momenti di creazione coreografica, andare in tournée, riflettere, discutere, divertirsi. E mi manca anche percepire ed esplorare le diverse capacità del fisico, che si allena e che si esprime alla massima potenza. Ma c’è un momento per tutto.
Cosa ci puoi dire del tuo recente lavoro alla Scala?
Nel 2023 ho creato “Solitude Sometimes” per quattordici interpreti su invito del direttore del corpo di ballo, Manuel Legris. Questo pezzo ha debuttato nel febbraio del 2023 e verrà ripreso nel febbraio del 2025 al Teatro alla Scala. È stata un’esperienza straordinaria lavorare con un gruppo così talentuoso in un teatro tanto ricco di tradizione.