«Sono le azioni che contano. I nostri pensieri, per quanto positivi possano essere, sono perle false se non vengono trasformati in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo». La famosissima esortazione all’azione attribuita a Mohāndās Karamchand Gāndhī, che descrive con forza la distanza tra consapevolezza e azione, potrebbe sintetizzare il percorso che ha portato i giovani designer Koen Meerkerk (29 anni) e Hugo de Boon (30), laureati all’accademia Willem de Kooning di Rotterdam, a sviluppare il progetto Fruitleather.
Un percorso visionario, che in pochi anni li ha portati a confrontarsi con i nodi critici dello spreco di cibo (nello specifico di frutta) lungo tutta la filiera, dell’impatto tutt’altro che irrilevante della produzione e lavorazione della pelle, dello sviluppo di moda e design sostenibili. E grazie al loro progetto – che ha omologhi in altre filiere – quello che internazionalmente viene conosciuto come food waste trova una risposta concreta.
L’alternativa sostenibile alla pelle
«Viviamo in un mondo in cui le risorse diventano ogni giorno più scarse» si legge online nel manifesto di Fruitleather. «Eppure ogni anno nel mondo buttiamo via 1,3 miliardi di tonnellate di cibo. Si tratta di circa un terzo dell’intera produzione. Di tutta la frutta che produciamo per il consumo, il quarantacinque per cento diventa rifiuto. Il trenta per cento dei terreni agricoli della Terra viene utilizzato per produrre cibo che alla fine verrà buttato via. E gli agricoltori tendono a lasciare fino al quaranta per cento del loro raccolto nei campi, perché non soddisfa gli standard estetici per i supermercati».
Con questa consapevolezza, e con un focus sulla «creazione di valore per le cose etichettate come inutili», il duo si è inserito nel flusso del fare. E dopo essersi insediati a Bluecity – una piscina abbandonata di Rotterdam trasformata in hub dell’economia circolare e zero scarto – Koen e Hugo hanno avviato il progetto Fruitleather per lo sviluppo di materiali. «Tutto era iniziato nel 2015, mentre stavamo ancora studiando – racconta Hugo – e la spinta è originata da un esame per cui ci veniva chiesto di creare qualcosa, qualsiasi cosa, capace di produrre la massima esposizione mediatica. Nella fase di studio, abbiamo notato l’enorme mole di rifiuti generati al mercato locale e abbiamo iniziato a sperimentare, arrivando alla fine a sviluppare il nuovo materiale».
Ecco la svolta con Leatherfruit. «L’obiettivo cruciale dell’azienda è quello di essere in grado di fornire una nuova alternativa alla pelle, che abbia più benefici ambientali – spiega il cofondatore della startup – e allo stesso tempo trovare un modo per utilizzare la grande quantità di scarti di frutta che viene prodotta ogni anno. Attualmente utilizziamo solo mango, ma in passato abbiamo dimostrato che anche altri frutti possono essere recuperati. Una volta che la nostra azienda crescerà, utilizzeremo una varietà più ampia di frutti per creare il materiale base».
Dalla nicchia all’industria, per fare la rivoluzione
Il progetto non è rimasto un bel sogno, ma in pochi anni è arrivato a generare profitti e – secondo quanto riferisce Hugo – è scalabile in prospettiva. «Il processo produttivo non è più sperimentale – spiega – e lo stiamo perfezionando da qualche anno, per cui il materiale avrà sempre una qualità standard su cui facciamo affidamento. Ha molte caratteristiche della pelle, in particolare l’aspetto e la sensazione tattile, anche se al momento le proprietà fisiche non sono ancora le stesse, ma stiamo facendo del nostro meglio per migliorarle in modo da garantirne l’applicazione su più prodotti finali».
Fruitleather può essere trasformato in calzature e accessori di moda e può essere utilizzato nell’arredamento e nell’interior design. Le prime collaborazioni sono di nicchia e coinvolgono brand “nativi sostenibili” come la tedesca Claudio Pavone e la eco-startup spagnola Saye per le sneaker, il marchio di abbigliamento Felder & Felder tra Berlino e Miami, lo studio newyorkese Bowen Liu per l’arredo o la tedesca Vederwerk per gli accessori di pelletteria.
Il target è però chiaro: grandi aziende che utilizzano una grande quantità di pelle nello sviluppo dei prodotti finali. «Se riusciamo a sostituirne una certa percentuale – chiosa Hugo – allora possiamo già avere un grande impatto. Puntiamo sul sistema-moda e vorremmo cambiarne, almeno in parte, i processi. A causa del prezzo ancora elevato, i materiali sostenibili al momento non sono utilizzati quanto potrebbero, perché le aziende tendono a concentrarsi sul profitto più che sul proprio impatto. Speriamo che questo approccio cambi nel prossimo futuro».
La rivoluzione però deve partire dal basso, ovvero dal consumatore. «Speriamo che il nostro progetto renda le persone più consapevoli dei materiali sostenibili che sono attualmente già disponibili – conclude Hugo – e penso che il grande cambiamento inizierà quando le persone saranno più consapevoli dell’impatto che possono avere».
Se dunque da un lato il consumatore dovrebbe agire più razionalmente a monte – il dieci per cento di tutti i gas serra nei Paesi ricchi viene emesso dalla produzione di cibo che non verrà mai mangiato (per acquisti eccessivi o scelte estetiche) – anche la scelta di prodotti circolari a valle diventa cruciale. Nello specifico, la produzione di pelle animale è un problema ambientale: ogni anno più di un miliardo di animali viene macellato e il processo di pulizia delle pelli produce in tutto il mondo circa 650.000 tonnellate di CO2.