Una volta qui era tutta lotta di classe. Era tutto – la classe sociale, l’appartenenza, il riscatto – talmente nel tessuto di ciò che consumavamo, che neanche ce ne accorgevamo, neanche serviva che fosse il tema.
Quando avevo ventun anni al cinema c’era “Philadelphia”, e la giovane me pensava che Tom Hanks che ascoltava le arie d’opera fosse un cliché d’omosessualità per il grande pubblico: dai, su, il busone cui piace la Callas, potevano sforzarsi un po’ di più.
La me di trentun anni dopo sa che quella scena non serve a dirci l’omosessualità di Tom Hanks: il film è a due terzi, sappiamo che è gay e sappiamo che tutti i suoi guai da quello derivano, che ha preso l’Aids per quello, che l’hanno licenziato per quello, che vive con Antonio Banderas, che Denzel Washington – avvocato da due spicci, ma l’unico che fosse disposto a difenderlo – disprezza i gay.
Quella scena serve perché prima abbiamo visto Tom Hanks a cena dai genitori, sappiamo che è ben nato, sappiamo che è cresciuto tra le ville della borghesia cittadina, che ha fatto un’ottima università e infatti lavorava nel più prestigioso studio legale della città; quella scena serve a far dire a Denzel Washington «non m’intendo d’opera»: quei due non sono un omosessuale e un eterosessuale, sono un nato ricco e un nato povero.
Quando sento «mi piace viaggiare» metto mano alla pistola più velocemente di quando sento «mi piace leggere», perché a chi diavolo piace viaggiare, ormai che è un inferno qualunque trasporto non sia un aereo privato, ormai che tutti viaggiano e c’è folla ovunque e facciamo finta che le ore di ritardo di tutto dipendano da Salvini invece che dal delirio insanabile del viaggio come attività di massa.
È ovviamente un inferno se viaggi da povero. Ogni anno c’è uno scandaletto legato a Flixbus, l’anno scorso l’incidente dopo il quale non fu offerta assistenza ai passeggeri, quest’anno la signora mollata in un autogrill perché tornata oltre i minuti di sosta concordati. Ogni anno i non assistiti strabiliano perché il servizio clienti latita, e ogni anno io mi chiedo come siamo diventati così illogici da pensare che, se spendiamo per un viaggio meno che per un mojito, in quel costo poco più che simbolico poi rientreranno anche l’assistenza alla clientela e altri comfort pagati chissà da chi. Viaggiare a prezzi politici è un inferno, ma è una scocciatura anche viaggiare spendendo.
Quei pochi ricchi (quelli coi soldi, non quelli che vivono a scrocco) che instagrammano qualcosa delle loro vite dicono che è un inferno comunque: se viaggi con l’aereo privato ti arrivano i messaggi indignati, «e al surriscaldamento climatico non ci pensi», se viaggi di linea ti arrivano i messaggi «cosa sei ricco a fare».
«Cosa sei ricco a fare» è un messaggio che mando spesso anch’io, perché essere ricchi e viaggiare di linea mi pare come essere ricchi e far la fila alla posta, come esser ricchi e mangiare cose cattive, come esser ricchi e farsi la tac a carico del servizio sanitario nazionale: un inaccettabile spreco di risorse.
Qualche settimana fa Fabio Rovazzi ha instagrammato qualche secondo a bordo d’un aereo che anche la mia bisnonna che non ne aveva mai preso uno avrebbe riconosciuto essere di linea, ma siccome andava ad Ancona era nonostante l’estate un aereo vuoto. Settanta posti, e a bordo solo Rovazzi e le persone che viaggiavano con lui. Nel video ha fatto una battuta tipo «oggi si viaggia privato»; una battuta che, in un mondo in cui esistesse una selezione, il pubblico sarebbe stato in grado di cogliere: guardalo, dice che quel RyanAir vuoto è un volo privato.
Il mattino dopo è comparso un altro suo video, spiegava che no, non aveva preso un volo privato, era una battuta, e non ci voleva un genio della decodificazione per capire cosa fosse successo: il pubblico dell’Instagram l’aveva redarguito, come puoi aver preso un aereo privato, non ci pensi all’ambiente, non vuoi salvare il pianeta, vuoi arrubbarci il futuro.
Certo, c’entra sempre quel problema che nessuno capisca l’ironia, ma c’entra anche la smania moralizzatrice di gente con troppo tempo libero: mentre aspetto che la lavatrice centrifughi, fammi un po’ vedere se posso colpevolizzare qualcuno sull’internet.
In questi giorni, lo spunto per la smania moralizzatrice è stato il più innocuo dei giochini di internet. È un elenco di diciassette città, spunta quelle in cui sei stata. Ovviamente, siccome nulla più di Instagram propala il malinteso senso gaberiano di libertà, la partecipazione, tutti si affrettano a condividere la lista, oltretutto fatta da americani per cui anche essere stati a Roma o a Parigi val la pena menzionare: se da queste parti non sei mai stato a Londra, a Parigi, a Roma, significa che sei Mowgli e i tuoi genitori adottivi ti hanno appena portato in Italia dalla giungla.
Ma pure se ci sei stato non significa granché. Vale essere stato a Londra in vacanza studio a quindici anni? A Berlino per intervistare un attore avendo visto solo l’albergo? A Amsterdam perché ci faceva scalo un volo? Sì, per il giochino. No, per l’unica cosa per cui dovrebbe servirti viaggiare: accumulare osservazioni. (Si può comunque diventare eccellenti osservatori di non-luoghi facendo solo scali aeroportuali: i consigli su quale lounge usare, tra quelli che mi chiedono coloro che vanno in posti in cui sono stata spesso, sono assai più apprezzati di quelli su cosa comprare o dove andare a mangiare una volta in città).
La lotta di classe dei dilettanti si scatena. «Qual è il senso di questa challenge se non performare le proprie possibilità economiche?», chiedono retoricamente due divulgatrici (vabbè) da ben più di centomila follower l’una, e nessuno dei centomila si chiede chi diavolo stia seguendo quando si trova moniti che contengono le parole «challenge» e «performare».
Ci spiegano le intellettuali che possiamo permetterci che, quando hanno pubblicato una storia (una di quelle funzioni di Instagram che spariscono in ventiquattr’ore permettendoci di dimenticarci della scemenza) parlando di questa terribile ostentazione di privilegio (vabbè), è indicativo che abbiano ricevuto in risposta «Fa male vedere ’sta cosa, bloccata in città con 40 gradi senza il condizionatore».
Anche prendendo per buona la capacità dell’Instagram di ferirci (e la nostra incapacità di non guardare le vacanze degli altri sull’Instagram se farlo ci turba), direi che se sei a casa senz’aria condizionata ti feriranno di più le pubblicità della Daikin che sapere che Tizio nella sua vita è prima o poi stato a Singapore (dove non s’è ripreso dal fuso orario per i sei giorni e cinque notti che aveva prenotato, ma ha potuto comprare dei magneti da frigo che testimonino che c’è stato).
Ora, spiace che quando l’internet si avventura nella lotta di classe lo faccia così male, ma: viaggiare ha smesso d’essere un privilegio da ricchi quando prendere un aereo ha iniziato a costare come prendere un taxi. Due biglietti di concerto costano come un volo per New York, se uno proprio ha la smania di vedere il mondo anche viaggiando in terza classe.
Il problema non è economico, e per saperlo basta guardare l’internet per capire il mondo invece che per struggersi dalla sofferenza (ricopio altra pensatrice dell’Instagram, anche lei con più di centomila che ne leggono i penzierini: «Sto passando l’ennesima estate senza vacanze. Ogni volta che apro i social vedo solo persone che abbracciano il mare, illuminate dalla luce della golden hour, e sento uno strapiombo nel petto». Ragazza, da’ retta a una vegliarda: invece dei social, apri Balzac).
Il problema è il quarantenne benestante che ho visto fotografato a Formentera alcune centinaia di volte, e che la sua brava lista con le crocette la fa, e ne emerge che non è mai stato a New York o a Berlino, e certo che essere il Tom Hanks cresciuto nei quartieri alti e che ha viaggiato fin da piccolo è più facile che essere il Denzel Washington che ha dovuto sudarsi ogni progresso culturale, ma come diavolo è possibile che uno diventi adulto – adulto che lavora nella comunicazione, perdipiù – e non gli venga mai mai mai la curiosità di andare a vedere come sono fatte le città su cui si è formato l’immaginario dell’occidente.
Il problema è il quarantenne multimilionario che non molto tempo fa strabiliava vedendo per la prima volta San Francisco dove non era mai stato, però ogni sei mesi va alle Maldive: il problema non è se parti, ma per dove; il problema non è quanti ne hai: è come li spendi.
Io per «mi piace viaggiare» m’innervosisco come neanche per «mi piace leggere»: ti piace leggere cosa, Recalcati o Canetti, Margaret Mitchell o Emily Brontë, Zerocalcare o Art Spiegelman, «mi piace leggere» non mi dice nulla di te, se non che sei il tipo che dice frasi che s’illude gli facciano fare bella figura.
«Mi piace viaggiare» è altrettanto generica, altrettanto una posa, altrettanto rivelatrice del fatto che ti agiti molto per fare buona impressione ma, dei personaggi di quel film lì, hai avuto l’età dello sviluppo di Denzel Washington: non hai familiarità con l’opera lirica, e se andassi a Philadelphia non sapresti dove mangiare una favolosissima torta di cioccolato fatta con l’olio d’oliva invece del burro.
A nessuno piace viaggiare, però occorre aver viaggiato: per poi invecchiare con le caselle spuntate delle città che se non le hai viste di cosa dobbiamo parlare, del cane di Cassavetes; per aver smaltito da piccoli le tappe che vanno fatte e non diventare adulti così scemi da pensare che un EasyJet per Amsterdam sia lotta di classe; per poi decidere che si vuole stare a casa propria; quindi, soprattutto, per poi diventare il Serge di Yasmina Reza, «incapace di rallegrarsi di essere in un posto senza aspirare subito a non esserci più».