Ventinove anni e undici mesi fa, il titolo sulla prima pagina di Cuore era «Aiuta lo Stato: uccidi un pensionato». Cuore, diranno i miei piccoli lettori, era un giornale satirico: nessuno avrebbe potuto prenderlo alla lettera. Ma Cuore, nella sua testata, non aveva indicazioni esplicite del suo essere un giornale di satira: c’era scritto «settimanale di resistenza umana». Trent’anni dopo, basterebbe?
A dicembre del 2020 – giacché non si diventa il giornale più venduto del mondo, d’un mondo di scemi, dicendo loro che sono scemi – il New York Times pubblica un articolo sulla necessità di indicare i toni di ciò che si sta scrivendo. L’articolo comincia spiegando che quando qualcuno ci parla c’è il linguaggio del corpo, ci sono i toni di voce, lì ad aiutarci; per arrivare all’incredibile domanda: «In un ambiente fatto solo di testo, come possiamo mai essere certi che gli altri capiscano cosa intendiamo quando pubblichiamo qualcosa on line?».
Non so, amici del New York Times: “Una modesta proposta” è di trecento anni fa, non avevamo inventato gli emoji (che arretratezza culturale, santo cielo: passi non avere l’acqua corrente, ma senza emoji come può sopravvivere una civiltà?), dite che se Jonathan Swift lo pubblicasse oggi un distratto magistrato che sta scrollando il cellulare al cesso lo indagherebbe per cannibalismo?
Non se lo sono mica inventato quelli del New York Times, porelli, il problema del pubblico coi toni, né se l’è inventato questo secolo. Quasi quattrocento anni fa c’era chi voleva segnalare le domande retoriche con un punto esclamativo invertito (era un filosofo inglese: gli spagnoli, che sono più prudenti di noi, il punto esclamativo invertito lo usano all’inizio delle esclamative, così non devi sorprenderti del tono a fine frase perché sei preparato dall’inizio).
E negli ultimi duecento anni, prima che l’internet ponesse il problema d’un pubblico con cui non avviene reciproca selezione, e che quindi si trova a leggere una roba per caso – e cosa ne sa del tono di voce dell’autore o anche solo dei generi letterari, cercava le previsioni del tempo e gli è apparso un articolo – prima di questa deriva varie volte è stato proposto – da intellettuali, poeti, editori, altri disperati che vedevano sfuggire il senso del tono dei lettori – un segno per indicare l’ironia.
Poi è arrivato questo secolo, e nel 2005 un tal Nathan Poe ha formulato quella che è diventata nota come “legge di Poe”, giacché l’abitante medio dell’internet non ha intenzione di superare i propri limiti ma è ben lieto ch’essi vengano codificati. Il commento che Poe lasciò in un forum era «Senza una faccetta sorridente o altro esplicito segnale di umorismo, è assolutamente impossibile parodiare un creazionista in modi che non ci sia qualcuno che prenderà sul serio». Era l’agosto del 2005, si decretava la morte del senso del tono.
Diciannove estati dopo, ad agosto del 2024, eccoci qui con “Kim” e con “Bianca” e con “Troverò il mare”. Tanto per variare, non partiamo da me. Partiamo da Gary Shteyngart, il cui “The case for Robert Kennedy jr.” viene pubblicato dall’Atlantic l’altroieri, martedì.
Il tono dell’articolo è incontrovertibile, e non perché contenga dei disegnetti sorridenti: perché, mi spiace maramaldeggiare sul pubblico ma qualcuno deve dirvelo, la scelta delle parole basta e avanza a convogliare il tono del testo. Alla prima riga – la prima! – Shteyngart scrive «Ho votato per Donald Trump alle ultime cinque elezioni presidenziali».
Certo che nessuno legge niente per intero, figuriamoci, ma già al secondo paragrafo ci sono queste due frasi: «Soffro di fistole anali e il dottore nell’ambulatorio locale si chiama Hussein (come Barack Hussein Obama), e non è stato capace di risolvere il mio problema come avrebbe saputo fare un dottore americano. Se questo “dottor” Hussein fosse stato fermato al confine col Messico, non avrei le fistole anali». Non può esistere un lettore che equivochi il tono, neanche un lettore contemporaneo di Jonathan Swift, cioè di quando non esisteva la scuola dell’obbligo. E invece.
E invece arriva Kim, che risponde indignata al tweet dell’Atlantic. «Chi cavolo è Shteyngart e perché mai pubblicate queste sciocchezze? Non so cosa vi sia successo dall’anno scorso, ma adesso vi siete messi a pubblicare immondizia. Certo che esistono ignoranti contrari ai vaccini, ma i giornali devono smetterla di dar loro voce. Stanno uccidendo delle persone». Kim è un duro colpo per chi pensa che gli stolidi stiano tutti da una parte: Kim non solo sta dalla parte giusta, ma è pure un’insegnante. È anche un duro colpo per chi pensa di venire frainteso solo da accidentali utenti social: Kim è abbonata all’Atlantic.
Succede, però, una cosa interessante, se non addirittura miracolosa. Shteyngart la rilancia, e il di lui pubblico – quelli che seguono uno scrittore perché ne apprezzano i toni satirici – compattamente le spiega che non ha capito. E Kim fa una cosa che non fa più nessuno: si applica a capire.
Dice che in effetti l’articolo l’aveva letto a saltare, che invece di cogliere la parodia in passaggi come «gli ha fatto venire l’autismo» pensava che quella formulazione indicasse che Shteyngart si era fatto scrivere il pezzo dall’intelligenza artificiale, che dev’essere impazzita, che forse a furia di leggere compiti di studenti ottusi che prendono alla lettera Swift si è rovinata, che ora corre a comprare un libro di Shteyngart. Tutto è bene quel che finisce eccezionalmente.
Nel frattempo, da queste parti, succedeva una cosa minuscola ma spassosa. Già da un paio d’anni, l’algoritmo di Twitter (o come si chiama ora) mi fa vedere tantissimi venti o trentenni, che hanno i problemi che hanno i venti o trentenni di questo secolo, i problemi che nel secolo scorso avevamo alle medie o al liceo.
Ogni amore finito è l’ultimo amore per sempre, ogni amicizia sfilacciata è un melodramma che lèvati, ogni inciampo è definitivo. Mentre “Kim” comprava il suo primo libro di Shteynghart, io mi sentivo eroica perché il giorno prima non avevo risposto a “Bianca” (io a questi cui la vita non ha ancora insegnato a stare al mondo risponderei sempre, perché più li si lascia credere alle loro stesse fregnacce peggio è, più a lungo si lascia intonsa la scemenza meno saranno in grado di cambiarmi il pannolone tra trent’anni).
“Bianca”, in un penzierino che l’algoritmo mi aveva ovviamente mostrato, aveva scritto: «Che coglioni ragazzi comunque è proprio vero che se non ti fidanzi non puoi fare un cazzo al giorno d’oggi. E non venitemi a dire di fare le cose da sola perché già le faccio, viaggio da sola, vado al cinema da sola, vado anche a fare serata da sola. Ma non è vita questa». Non le avevo risposto anche perché so che sulla solitudine sono troppo estremista. Le mie amiche mi guardano sempre come la zia matta quando spiego che sacrificio sia andare a cena con loro, in viaggio con loro, al cinema con loro, quando potrei avere la versione assai migliore di quelle cose, ovvero farle da sola.
Senonché arriva il pomeriggio di martedì, quando tra le centinaia di persone che rilanciano “Bianca” mi compare “Troverò il mare”. Scrive così: «Sono stata single a 22/23 anni e ora sono tornata single a 26/27. È completamente diverso: ora gli amici sono tutti quasi sposati o impegnatissimi ed è praticamente impossibile fare amicizia».
Muoio di tenerezza per mille ragioni delle quali se siete adulti potete saltare la lettura perché già sapete tutto. Solo una ventisettenne può pensare che a ventisette anni una abbia capito non dico le grandi verità della vita ma anche solo che vini le piacciano. Solo una ventisettenne può pensare d’essere più vecchia e saggia di quando ne aveva ventitré. Solo una ventisettenne può non sapere che la vita come le sembra adesso durerà tre quarti d’ora, e nei prossimi cinque, dieci, quarant’anni cambierà tutto decine di volte, sarà sola, sarà in compagnia, sarà disperata, sarà allegra, sarà convinta d’aver capito cose senza averci capito niente e giurerà che è per sempre roba che non ricorderà dopo un minuto.
È ovviamente uno scherzo dell’inconscio che, nello stesso pomeriggio in cui citavo qui il “Giulio Cesare” spiegando che nessuno avrebbe oggi capito le antifrastiche di Marc’Antonio nell’orazione funebre, abbia avuto la bella pensata di rispondere così a “Troverò il mare”: «E 27 anni, qualunque adulto lo sa, sono una versione definitiva della vita, non cambierà mai più niente, è tutto finito». Solo il caldo (sarà di nuovo colpa della Daikin) può avermi fatto pensare che lei e i suoi coetanei avrebbero capito il tono da psicodramma, parodia del suo tono da psicodramma (ma lei non si percepisce francescabertinamente attaccata a una tenda: come può cogliere la parodia?).
Sto scrivendo queste righe nel pomeriggio di mercoledì, e ho ricevuto decine di risposte. Tutte, senza eccezione, convinte che io dica sul serio. Ricopio una selezione: «Oddio ma che ansia! Ma poi definitiva cosa, che la maggior parte ancora deve trovarsi un lavoro stabile/comprare casa ecc. Forse i 27 erano già vita adulta e stabile nel 1980, adesso mi sembra economicamente e socialmente impossibile»; «Insomma. Molto può cambiare»; «Proprio stamattina pensavo “cazzo a settembre compio 27 anni” entro leggo questo tweet grazie mille»; «minchia se è tutto finito a 27 anni perché campiamo di più» – eccetera.
La mia regola, che non tiene evidentemente alcun conto del mercato, è che le battute non si spiegano: esse praticano una forma di selezione naturale, arrivano a chi le capisce. Tuttavia sono stata tentatissima di rispondere uno per uno ai rappresentanti di questa generazione che, se non fosse impegnata a disperarsi perché gli amici hanno organizzato una serata escludendola, si preoccuperebbe assai per il cannibalismo di Swift.
Ho letto da qualche parte che non si deve essere sarcastici coi bambini, perché non capirebbero; non sono sicura sia un buon consiglio. L’unica cifra di mio padre era il sarcasmo, e forse solo questo mi ha permesso di diventare una giovane adulta che avrebbe visto la comicità in qualcuno che le avesse detto «è tutto finito», una che non ha dovuto aspettare la terza età per cominciare a capire i toni.
Mentre mi mettevo a scrivere questo pezzo, ho avuto il dubbio che «settimanale di resistenza umana» fosse un falso ricordo, e ho quindi chiesto a Michele Serra conferma che non ci fossero indicazioni esplicite di satira nella testata, e se pensava anche lui che oggi sarebbero necessarie. In un sussulto d’ottimismo, pensavo mi dicesse che no, che sono la solita esagerata, che il pubblico magari non capisce nel collassato contesto social ma se gli dai un testo a tema certo che coglie.
E invece mi ha risposto che non è detto che l’indicazione esplicita basterebbe: «La mia rubrica sull’Espresso si chiamava “Satira preventiva”, ma lo stesso qualcuno non capiva. Scrissi: a Poggioreale c’è un boss che mangia banconote da cento euro. Mi arrivò una mail: sono uno studente di criminologia, mi piacerebbe conoscerlo». Non ne ero consapevole l’altroieri, ma ora sì; la mia non era una battuta, ma una serissima analisi del presente, che si abbiano ventisette anni o centosette: è tutto finito.