V come vanità Cronaca d’un sogno d’un pomeriggio d’estate sulla serie tv italiana del secolo (scorso)

Ho sognato che un autore di consolidato insuccesso che all’improvviso si ritrova a vendere quattrocentomila copie abbia insistito per firmare la sceneggiatura di M. che fino a poco tempo prima aveva criticato. Riuscirà il romanziere a ottenere l’agognato credito, dopo aver rotto le scatole per mesi al vero sceneggiatore? Lo scopriremo a Venezia

LaPresse

Questo non è un articolo su “M., il figlio del secolo”, sceneggiato televisivo – scritto da Stefano Bises e tratto dal primo dei romanzi di Antonio Scurati su Mussolini – che sarà presentato al festival del cinema di Venezia e poi andrà in onda su Sky nel 2025.

Non lo è perché, come tutti quelli che l’hanno visto, ho promesso di non parlarne fino al passaggio veneziano (un accordo tra gentildonne che è abituale quando qualcosa passa dai festival in anteprima, lo specifico per evitare che commentatori inattrezzati ciancino di censura della libera stampa e altre puttanate).

Ma soprattutto non lo è perché questo è il resoconto d’una conversazione immaginaria. Fate conto: le scene oniriche dei film (lo so: sono insopportabili). Nulla di ciò che sto per raccontarvi è successo davvero, se non nella mia immaginazione. Nulla di ciò che sto per dirvi è una notizia, giacché sapete bene che qui notizie non se ne danno.

Dunque stavo facendo una pennichella di quelle da caldo pomeriggio d’agosto, quando ho fatto un sogno. Ho sognato di ricevere una telefonata. Ho sognato che questa telefonata raccontasse non com’era l’adattamento di “M.”, ma cos’era successo fuori scena.

Nel sogno, il mio interlocutore mi raccontava un bisticcio tra due personaggi che più diversi non sarebbero potuti essere: due figli di questo secolo, ma dall’opposto corredo genetico e professionale. Se questo fosse “Friends”, uno dei due sarebbe Rachel, che non s’è mai dovuta guadagnare niente, e l’altro Monica, che s’è sempre dovuta guadagnare tutto.

Uno, che nella finzione onirica si chiama S., è il classico invidiabile soggetto al quale la vita le ha regalate tutte: carriera scintillante, gusto impeccabile, donne che gliela lanciano con la fionda, persino la comprensione decenni prima di tutti gli altri che il giornalismo fosse morto e ci si dovesse buttare negli sceneggiati televisivi. (Se fossimo in “Come eravamo”, S. lo interpreterebbe Robert Redford).

L’altro, che nella finzione onirica si chiama A., non altrettanto benvoluto dalla natura e dagli dèi, una lunga gavetta di romanziere invenduto prima d’imbroccare l’opera midcult, il romanzone sul fascismo che faccia sentire engagé i lettori. Per poi arrivare, a cinquant’anni, a vincere lo Strega. Per poi arrivare, a cinquantacinque, al ruolo di eroe civile per merito del mezzaseghismo di dirigenti Rai che non sanno fare il loro lavoro, e al posto fisso cui ambisce ogni intellettuale: quello da ospite di “Che tempo che fa”. (Se fossimo nel “Verdetto”, A. lo interpreterebbe Paul Newman).

A. è – sarebbe, se questa fosse realtà e non la cronaca d’un sogno d’un pomeriggio di mezza estate – quello cui pensano gli editori quando continuano a pubblicare libri di autori che fin lì non hanno venduto un granché. Una volta il più simpatico degli editori italiani mi disse, pentendosi d’un libro che aveva rifiutato, «Pensi sempre “ma questo non venderà mai”, e invece poi vende».

Se stessimo parlando della realtà, direi che Bompiani non ha fatto l’errore dell’editore simpatico: s’è tenuto Antonio Scurati in povertà e resi e tirature basse, e quando nessuno ci avrebbe più scommesso s’è ritrovato lo Scurati che vende quattrocentomila copie a ogni capitolo d’una trilogia. Un numero che farebbe piacere a tutti (quattrocentomila copie, oggi, sono come quattro milioni trent’anni fa), e che è ossigeno per Bompiani che sì, quest’estate ha sorpreso tutti con una romanziera alta in classifica, ma di solito se non ci fosse Scurati che tiene su i bilanci potrebbe pure chiudere. Ma ora basta con la statua a cavallo che Bompiani dovrebbe dedicare a Scurati, e torniamo al mio sogno pomeridiano.

Mi raccontano in sogno che, quando s’inizia a lavorare all’“M.” di Sky, il nostro A. di fantasia è traumatizzato da un precedente tentativo di adattare “M.” su Netflix, dove l’ufficio materie sensibili boccia la presenza del samurai mandato da D’Annunzio a sollecitare un intervento di Mussolini su Fiume. Un giapponese, figuriamoci: è appropriazione culturale. Praticamente è la scena del “Sol dell’avvenire” in cui Moretti strabilia davanti alle priorità dei dirigenti Netflix, solo che Nanni Moretti è stato baciato da una fortuna che A. non ha ricevuto in dono: il senso dell’umorismo.

Quell’esperienza non diviene scena esilarante ma rancore e pregiudizio. Per cui, quando riceve le sceneggiature abbozzate da S. per il nuovo adattamento, A. si mette sulla difensiva. «Questo non è il mio “M.”, non riconosco il mio libro», mi raccontano (in sogno, sempre in sogno) abbia detto. Passano mesi di scrittura televisiva durante i quali S. lavora e A. rompe i coglioni, come spesso accade quando si adatta un libro, e ancora di più se l’autore è quella cosa che pochissimi sono: un autore di consolidato insuccesso che all’improvviso si ritrova autore di successo. Conoscerete anche voi qualcuno che ha avuto fortuna personale o professionale tardi: non ce n’è uno che regga la pressione.

Poi però arriva il 2024. Che non è solo l’anno in cui ad aprile A. diventa eroe civile e a ottobre diverrà ospite fisso di Fabio Fazio. È anche l’anno in cui le puntate di “M.” sono pronte, A. le vede, e improvvisamente gli piacciono, improvvisamente le riconosce, improvvisamente vuole firmare la sceneggiatura.

Sempre in questo sogno – mai nella realtà: le querele non vogliono prenderle i giornalisti, figuriamoci se voglio prenderle io – c’è un terzo personaggio, che chiameremo L. L., nella ricostruzione onirica, ha speso tanti di quei soldi per “M.” che ha dovuto lasciare la società di produzione in cui era e costituirne un’altra. L. è anche colui che deve decidere se accontentare A., che vuole un credito di sceneggiatura non previsto, o S. che si oppone perché la sceneggiatura l’ha scritta lui e quell’altro è stato indisponente tutto il tempo.

Dicono quelli che mi appaiono in sogno che i carteggi d’insulti di fronte ai quali L. deve mediare siano stupendi, così stupendi da ricordare un epistolario di sfanculamento di parecchi anni fa, per un progetto che poi verrà completato da altri, quello di adattare un altro romanzo di grande successo in un’altra serie televisiva. Allora, dicono che a sfancularsi siano stati altri due personaggi di fantasia che chiameremo coi fantasiosi nomi di Roberto Saviano e Paolo Sorrentino.

Chissà come andrà la mediazione del povero L.; chissà se il 5 settembre, alla proiezione veneziana di “M.”, nei titoli di testa ci sarà scritto che la sceneggiatura è del romanziere e dello sceneggiatore, o solo dello sceneggiatore. Chissà se il romanziere firmerà solo ciò che è stato concordato finora, cioè il soggetto di serie.

Chissà se poi, alla conferenza stampa, A. sarà sul palco o nella prima fila della platea: sarà meglio rischiare che i resoconti sui giornali si focalizzino sulle domande all’eroe civile che non poté leggere il proprio monologo in Rai, o che i giornalisti notino che l’autore del romanzo stravenduto non è sul palco, forse ha litigato, forse ha preso le distanze. Meglio rischiare gli articoli su una polemica estranea al prodotto o quelli su una polemica sul prodotto? Comunque vada, mi pare chiaro che, a Venezia, i giornali parleranno di come sia “M.”, la serie, più o meno quanto ne ho parlato io oggi.

Loro però, essendo a quel punto autorizzati a svelare dettagli, potrebbero usare, chessò, una certa battuta di Mussolini su D’Annunzio, una battuta che potrebbe suonare come una proiezione d’una debolezza di chi la fa, oltre che una descrizione dell’oggetto della battuta. A Venezia, beati loro, potranno ricostruire questo scontro di autorialità chiedendosi a chi dei convenuti si addica di più quell’«È la vanità il suo tallone di Achille».

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