Mercoledì scorso, tre uomini vengono arrestati a Erevan. Sono cittadini armeni e insieme ad altri connazionali fanno parte di una banda che da inizio anno viene finanziata e addestrata dal Cremlino con l’obiettivo di «preparare la presa di potere, usando la violenza e la minaccia della violenza per impossessarsi dei poteri del governo».
In poche parole, un golpe. Sebbene le autorità non abbiano ancora diffuso l’identità dei cospiratori, i primi dettagli dell’operazione sono stati resi pubblici: non si tratta di utili idioti o mitomani con il pallino del colpo di stato, ma di una formazione che fino alla sua cattura ha ricevuto uno stipendio mensile di duecentomila rubli (poco più di duemila euro) e un addestramento di tre mesi presso la base militare di Arbat, a Rostov sul Don.
In Russia, il gruppo si è esercitato all’utilizzo delle armi da fuoco, in particolare fucili d’assalto e altro equipaggiamento militare, oltre a prestarsi a improbabili test con la macchina della verità in modo da garantire, di fronte all’esercito putiniano, la propria fedeltà a Mosca.
Per quanto grottesco possa risultare questo dettaglio, è emblematico della paranoia che si respira dalle parti della Federazione russa (sulla quale torneremo a breve). La relazione stilata dal Comitato investigativo della Repubblica di Armenia afferma che i membri riconosciuti di questo commando sono sette, due dei quali provenienti dalla regione del Nagorno-Karabakh, epicentro del conflitto tra Armenia ed Azerbaijan.
Non è chiaro come questi avrebbero potuto concretamente rovesciare il governo e conquistare la Repubblica, se dietro di loro ci siano altri agenti dormienti, degli effettivi sostenitori o, più realisticamente, se con il loro atto di forza Mosca speravano in una strategia volta a destabilizzare il Paese, scatenando una reazione a catena che avrebbe offerto ai russi la giustificazione perfetta per un’invasione militare.
Questo scenario, del resto, è supportato dai numerosi esempi della storia recente. Ma a rendere il caso ancora più degno di interesse è il bersaglio: l’Armenia di Nikol Pashinyan. Russia e Armenia vantavano un’alleanza che risale ai tempi dell’Urss, un’unione politica e militare secondo molti indissolubile. Questo spiega l’imbarazzo da ambo le parti; il ministero degli Esteri russo si rifiuta di commentare la notizia, chiudendosi in un silenzio più che esplicativo, e anche i vertici armeni evitano accuse dirette.
Dopo la rivelazione dei procuratori, Pashinyan ha tenuto una conferenza stampa piena di attacchi sibillini all’ex alleato, parlando di inadempienze dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Otsc) – la cosiddetta “Nato russa” – piuttosto che confermare il ruolo attivo degli uomini di Vladimir Putin nella trama.
«Abbiamo congelato la nostra adesione alla Otsc non solo perché la Otsc non sta adempiendo ai suoi obblighi di garantire la sicurezza dell’Armenia, ma anche perché sta creando minacce alla sicurezza, all’esistenza e alla statualità dell’Armenia», ha dichiarato il primo ministro nell’incontro con i giornalisti e non servono particolari interpretazioni per capire che la sigla e il suo attentato alla “statualità” del Paese siano un modo per affermare quanto sospettato dall’opinione pubblica: la Russia non perdona l’indipendenza di Erevan e non si farà scrupoli per fermare il processo di emancipazione.
È proprio per questo che Pashinyan rincara la dose: «Se vedremo una possibilità più o meno realistica di diventare un membro a pieno titolo dell’Unione Europea non perderemo quel momento». Il tentato golpe doveva essere un modo per allontanare l’Armenia dall’Europa, e invece ha avuto l’effetto contrario. Era prevedibile.
Quello di mercoledì scorso è solo l’ultimo episodio della crisi tra Mosca ed Erevan che ha raggiunto il suo culmine poco prima dell’estate, quando il governo di Pashinyan ha deciso di “congelare” la sua adesione alla Otsc; la Russia perdeva non solo la sua presenza territoriale nella regione, ma uno dei partner più importanti dell’alleanza che secondo la propaganda putiniana rappresentava il braccio armato del tanto vagheggiato “ordine multipolare” a trazione moscovita.
È proprio su questo terreno che la paranoia russa diventa palese perché quello che secondo i media putiniani è riducibile a un “tradimento” da parte di Erevan, in realtà nasconde una serie di fallimenti del Cremlino che lo hanno colpito nel suo ruolo di arbitro internazionale. Il contingente russo, ai tempi, non ha difeso l’Armenia dagli azeri causando un progressivo, e inarrestabile, avvicinamento di questa ai Paesi occidentali; per cercare di correre ai ripari, la Russia è passata dall’altra parte del campo schierandosi in maniera sempre più esplicita con l’Azerbaijan.
Un mese prima della scoperta del complotto, i media russi hanno riportato con entusiasmo l’incontro a Baku tra Vladimir Putin e il presidente Ilham Aliyev nel quale si è discusso di collaborazione politica ed economica per rafforzare il ruolo di entrambi nella regione. A margine del bilaterale, Aliyev ha annunciato trionfalmente l’accordo stipulato con il Cremlino per il trasporto di merci dal valore di oltre centoventi milioni di dollari, un primo passo verso un’alleanza organica tra i due Paesi.
Il risultato di questa operazione non si è fatto attendere: l’ingresso della Russia nelle tratte commerciali azere ha fatto infuriare l’Iran perché avrebbe minato gli scambi diretti tra la Repubblica islamica e l’Armenia (la questione del corridoio di Zangezur, parte decisiva dei tentati accordi di pace nel conflitto del Nagorno-Karabakh).
Mosca ha tentato di fare la voce grossa ma l’Iran è un partner essenziale non solo per motivi ideologici, è tra i Paesi che contribuisce di più ai rifornimenti per sostenere l’invasione dell’Ucraina. È per questo che la grande strategia russa si è risolta con un ritorno sui propri passi condito da un’umiliante riappacificazione con il regime islamico.
Nel mentre, il protagonismo di Putin subisce un’ulteriore ferita con la recente chiamata tra Aliyev e il segretario di Stato americano Antony Blinken. Gli Stati Uniti stanno operando per raggiungere un accordo di pace nel Nagorno-Karabakh e l’evento è particolarmente amaro per il Cremlino: Putin non è più il solo arbitro al di sopra delle parti.
Questo insieme di sconfitte diplomatiche, tra un’Armenia dichiaratamente vicina all’Europa e un neo alleato che dialoga con il nemico numero uno, rappresenta una ferita fatale al sistema russo. Ma l’animale ferito è sempre più pericoloso ed è facile immaginare che il tentato golpe sia solo l’inizio.