Velleitari a ParigiL’ennesimo capolavoro della sinistra francese: no a tutto e premier di destra

La scelta di Macron di nominare Barnier primo ministro dimostra che quando i riformisti non riescono a venire a capo dei problemi posti dai massimalisti, alla fine, in un modo o nell’altro, vincono i conservatori. E in Italia questo lo sappiamo bene

AP/Lapresse

Dopo l’ultimo tango a Parigi con la scelta di Emmanuel Macron di nominare primo ministro il gollista Michel Barnier c’è da aspettarsi di tutto. L’aggrumarsi di polemica politica, rivolta sociale, malessere esistenziale potrebbe fare ripiombare la Francia nel caos. La gauche grida al tradimento, al furto delle elezioni. In effetti era arrivata prima, ma questo non basta: devi trovare degli alleati, altrimenti non entri nemmeno in campo. Il Nouveau Front Populaire, egemonizzato da France Insoumise, non ha mai trattato: o noi o niente. Risultato: niente.

E allora l’esito della crisi è abbastanza sconcertante. Perché rimette il Rassemblement National al centro della scena politica, esattamente il contrario dell’obiettivo di Macron, che grazie all’intesa tecnica con il Nouveau Front Populaire era riuscito a sbarrare la strada all’estrema destra uscita vittoriosa alle Europee. Macron non è venuto a capo di una situazione in cui nessuno dei tre poli ha vinto ma nessuno di essi ha voluto allearsi con un altro polo. Risultato, la paralisi, anche perché per legge non si può tornare alle urne.

Vedremo se Barnier, uomo di prim’ordine (lasceremmo perdere le considerazioni sull’età perché con questo criterio sarebbe preferibile Giorgia Meloni a Mario Draghi), si abbasserà a fare «lo scendiletto», come dice la gauche, di Marine Le Pen o se si rivolgerà ad altre forze. Barnier non durerà moltissimo: nella primavera 2027 ci saranno le presidenziali che in un modo o nell’altro cambieranno tutto.

Nasce dunque un governo intrinsecamente molto debole, con mezza Francia sulle barricate, con un presidente criticatissimo, con un Parlamento ingovernabile. Poteva andare diversamente? Sì. Il film della crisi ha avuto una sceneggiatura in cui tutti hanno teso trappole a tutti: una brutta pagina della storia politica francese, un miscuglio tra autoritarismo presidenziale e pasticci da IV Repubblica.

Eppure c’era stato un momento, pochi giorni fa, in cui la crisi avrebbe potuto prendere un’altra direzione. È stato quando è circolato il nome di Bernard Cazeneuve, ex socialista, ex primo ministro e titolare degli Interni al tempo delle stragi jihadiste di Parigi e Nizza. Un nome autorevole. Quello è stato l’attimo fuggente in cui i socialisti e i più ragionevoli del Front Populaire avrebbero potuto autonomizzarsi e svincolarsi dalla rigida egida di Jean-Luc Mélenchon: sostenendo Cazeneuve, convergendo dunque con i macroniani e magari con i gollisti, si sarebbe forse potuto dare vita all’unica ipotesi di governo possibile, un esecutivo di mediazione che tagliasse fuori le estreme, France Insoumise e Rassemblement National, due partiti antieuropei e a vocazione autoritaria.

Emmanuel Macron forse poteva forzare, nominandolo, e mettendo i partiti di fronte alle loro responsabilità. Il colpo di scena con la nomina di Barnier suggella il fallimento della sua idea di fondo: isolare gli estremisti di sinistra. Ai socialisti purtroppo è mancata la forza d’animo di compiere una scelta nazionale. Non è chiaro, almeno a noi, perché non sia venuta fuori, malgrado i Raphael Glucksmann e le Anne Hidalgo, una linea più costruttiva di quella del segretario Olivier Faure che al dunque ha sempre sposato le posizioni di Mélenchon. Quest’ultimo è un personaggio innamorato di sé stesso e del ruolo di rivoluzionario che la mediocre storia di questa fase gli ha assegnato, è uno che lavora per lo sfascio, all’insegna del tanto peggio tanto meglio: vero che il Nfp è la prima forza ma il suo leader e le sue idee confliggono con quelle di tutti gli altri, a partire dal Presidente della Repubblica che in Francia è un attore politico.

Piaccia o non piaccia, Macron non poteva accettare una coabitazione con un primo ministro, peraltro non espertissima, come Lucie Castets che al primo punto ha posto la distruzione della riforma pensionistica considerata dall’Eliseo decisiva per la tenuta dei conti pubblici. D’altronde dopo la nomina di Barnier, la stessa Castets e gli altri capi del Nfp hanno detto che continueranno la battaglia per «un’alternativa al macronismo»: è chiaro che con questi presupposti una coabitazione non sarebbe stata solo problematica, sarebbe stata impossibile. L’ultima lezione francese dunque conferma la regola: quando i riformisti non sciolgono il laccio che li lega ai massimalisti, in un modo o nell’altro viene in campo la destra. Ne sappiamo qualcosa in Italia, da più di cento anni.

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