Fanalino di codaLe città italiane rischiano di perdere il treno della Nature restoration law

Nei prossimi anni gli Stati membri dovranno recepire il nuovo regolamento europeo ed espandere gli spazi verdi anche in città. Mentre si moltiplicano le esperienze virtuose nate dal basso, a livello centrale l’Italia non sembra avere gli strumenti normativi per immaginare centri urbani più sostenibili

Il quartiere Ponte Lambro, a Milano, allagato dopo le piogge della scorsa settimana (Stefano Porta / LaPresse)

Dopo mesi di dibattiti, manifestazioni di piazza, mediazioni e colpi di scena, la Nature restoration law è diventata realtà. Il nuovo regolamento europeo sul ripristino della natura è stato approvato a fine giugno ed è entrato in vigore il 18 agosto. Negli stessi giorni il testo definitivo è stato pubblicato per intero nella Gazzetta europea. Ora la palla passa agli Stati membri, che dovranno recepire il regolamento presentando il proprio Piano nazionale di ripristino entro il 1° settembre 2026. Non basterà però occuparsi della rinaturazione di boschi, fiumi e praterie d’alta quota. 

La Nature restoration law prescrive anche di mappare con metodologia scientifica tutti gli ecosistemi urbani presenti nelle città e nelle periferie, per poi catalogare le aree che hanno bisogno di ripristino, pianificare interventi di rinverdimento e immaginare Nature based solution in grado di mitigare gli effetti del riscaldamento globale. La questione è di primo piano anche perché, come si legge nel regolamento, «gli ecosistemi urbani rappresentano circa il ventidue per cento della superficie terrestre dell’Unione ed è qui che vive la maggioranza degli europei».

E infatti l’articolo 8 della Restoration law parla chiaro: «Entro il 31 dicembre 2030 gli Stati membri provvedono affinché non si registri alcuna perdita netta della superficie nazionale totale degli spazi verdi urbani né di copertura della volta arborea nelle zone di ecosistemi urbani», un obiettivo da cui sono esclusi solo i centri e gli agglomerati che presentano già una quota di spazi verdi superiore al quarantacinque per cento e di copertura arborea superiore al dieci per cento. Dal 1° gennaio 2031, poi, le zone urbane dovranno fare ancora di più: si richiede «una tendenza all’aumento della superficie nazionale totale degli spazi verdi urbani», ottenuta mediante l’integrazione di elementi vegetali anche negli edifici e nelle infrastrutture. Questo trend dovrà essere monitorato ogni sei anni.

L’articolo 14 spiega invece i criteri da utilizzare per censire gli ecosistemi a rischio e invita gli Stati a «individuare le sinergie con la mitigazione dei cambiamenti climatici, l’adattamento ai medesimi, la neutralità in termini di degrado del suolo e la prevenzione delle catastrofi», stabilendo su questa base le priorità e facendo interagire la propria strategia di ripristino con i piani nazionali per l’energia e il clima, ossia, per l’Italia, Pniec e Pnacc. L’Italia dovrà quindi agire in fretta, anche perché, rispetto ad altri Stati europei, parte da una posizione di svantaggio: proprio il nostro Pnacc, infatti, non appare in grado né di sostenere le ambizioni della Restoration law né di guidare l’evoluzione verso città più verdi.

Approvato con un decreto a fine 2023 e diffuso nel gennaio 2024, il Piano nazionale di adattamento al cambiamento climatico ha deluso molti osservatori, tra cui le maggiori associazioni ambientaliste italiane. Nonostante una sezione teorica ricca e approfondita, infatti, a livello programmatico il Piano è stato percepito come “vuoto” e, soprattutto, privo di copertura economica. Basti pensare che nella tabella Excel dedicata alle azioni da intraprendere per non soccombere al cambiamento climatico, nella colonna “Costi” centottanta caselle su trecentosessantuno sono bianche. In altre si legge “n\d”, “non si hanno stime precise al riguardo” o “costo zero”, anche per interventi di scala nazionale. 

Una caratteristica che vale anche per le misure dedicate agli “Insediamenti Urbani”, che sono sedici, di cui undici classificabili come divulgazione, ricerca e monitoraggio e solo cinque operative. Nessuno di questi interventi è accompagnato da un’indicazione di costo, se si esclude un progetto formativo da quattrocentomila euro. Non solo: in un’azione intitolata “Incentivare la stesura di Strategie e di Piani di adattamento urbani autonomi” si parla (al futuro) della possibilità che “dopo il 2017” vengano introdotte nuove norme europee in materia di adattamento e mitigazione nei centri urbani. Da notare che nel 2023 Wwf Italia e il Centro italiano di riqualificazione fluviale (Cirf) avevano proposto invece con le loro osservazioni di far convergere fin da subito il Piano con gli obiettivi della Restoration law, un appello rimasto inascoltato.

«Il Pnacc è uno strumento generico e nato vecchio, visto che la stesura è iniziata anni fa», spiega a Linkiesta Marco Merola, giornalista, docente universitario e divulgatore scientifico. Non solo: secondo Merola, «manca una budgettizzazione precisa delle azioni, che si tratti di salvaguardia costiera o di adattamento urbano. In realtà questo non è un “piano”, è una sorta di zibaldone dentro cui sono contenute misure vaghe. Un altro problema è normativo: se davvero le idee proposte fossero avviate, come calarle nella realtà e nella gestione amministrativa? Tutti questi dettagli non vengono trattati. Sono mancanze gravi, che rendono il Pnacc non applicabile». 

Questo non significa che la spinta alla rinaturazione urbana sia del tutto estranea al nostro Paese: al contrario, qualcosa si muove, e va proprio nella direzione indicata dall’Europa, seppur senza una guida unitaria. La convergenza che si può osservare in alcune Regioni è così tra l’operato previdente delle singole città e i principi espressi nella Restoration law. Sempre più piani di adattamento al cambiamento climatico nascono dal basso, appoggiandosi a fondi privati e alle amministrazioni locali.

Si tratta di esperienze impossibili da elencare in poche righe, a causa della loro grande diversificazione e diffusione. «Tante città e Regioni stanno già “facendo da sole” – spiega ancora Merola, che sta raccogliendo casi italiani e non di progetti di adattamento nel ricco webdoc multimediale Adaptation – in Emilia Romagna si lavora sulla gestione delle esondazioni nei centri abitati, in Friuli Venezia si progetta per mitigare la siccità, in Veneto si ripristinano le dune per salvarle dal turismo di massa e creare zone naturali. Insomma, è evidente che non si possa aspettare l’applicazione del Pnacc. Al tempo stesso, alcuni piani spontanei non coprono tutte le necessità dei territori, visto che le città si muovono, a seconda dei casi, in maniera più o meno visibile e più o meno efficace. Penso al caso di Forestami: ottimo per contrastare le isole di calore, ma non risolve tutti i problemi legati al clima che colpiscono Milano». 

In questo scenario rimane aperto, in effetti, un importante interrogativo, ossia se l’Italia troverà davvero il modo (e le risorse) per dare seguito alle indicazioni contenute nella Restoration Law su scala nazionale. Se da una parte le amministrazioni virtuose devono diventare modelli da studiare e riprodurre, dall’altra è urgente rendere più omogeneo, democratico e generalizzato il processo di adattamento. 

Al momento infatti alcune città sono infatti molto più avanti, nella pratica e a livello di visione, rispetto ad altre. Dal 2020, ad esempio, in Lombardia Fondazione Cariplo sta sostenendo – con fondi e un’assistenza tecnica – la realizzazione di vere e proprie strategie di transizione climatica, attraverso il progetto F2C – Fondazione Cariplo Per il Clima e la call for ideas Strategia clima. Tra le città che hanno colto l’opportunità, ci sono ad esempio Bergamo e Brescia, che stanno lavorando per aumentare la copertura verde, mappare gli impatti del riscaldamento globale, elaborare piani di ripristino e realizzare Comunità Energetiche Rinnovabili.

«Con Strategia Clima e il nostro Climate city contract vogliamo orientare le azioni della città in un’ottica di minimizzazione dell’impatto ambientale. Le sfide legate al cambiamento climatico sono complesse e richiedono soluzioni strutturate e multilivello», racconta a Linkiesta l’assessora con deleghe alla Transizione ecologica, all’Ambiente e al Verde di Bergamo, Oriana Ruzzini, facendo il punto sulla sua esperienza. Uno dei primi passi da compiere, continua, «è la responsabilizzazione della città: gli enti, i settori produttivi e non, la cittadinanza e tutti gli altri soggetti dell’ecosistema urbano devono agire di concerto e porre la questione climatica al primo posto nella lista delle priorità». 

«L’impegno assunto dall’amministrazione comunale – osserva invece Camilla Bianchi, assessora a Transizione ecologica, Ambiente e Verde di Brescia – con Strategia Clima e il nuovo Piano Aria e Clima promuove, in ottica trasversale, azioni concrete di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici. La sfida è quella di guidare una transizione giusta, in tempi brevi, non lasciando indietro nessuno. Proprio per questo è fondamentale un coinvolgimento di tutti i portatori di interesse e una partecipazione reale e piena della cittadinanza. La città va accompagnata non solo con trasformazioni di natura urbanistica, ma anche comunicando in modo efficace il senso delle azioni e le motivazioni che ci devono portare a cambiare anche i nostri stili di vita».

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