Digiuno intermittente, dieta chetogenica, dieta a basso contenuto glicemico, ad alto valore proteico, dieta del gruppo sanguigno o del minestrone: queste sono solo alcune delle tendenze alimentari che si sono passate il testimone, a rotazione negli ultimi decenni, prima sulle pagine dei giornali, ora soprattutto su quelle di influencer grandi e piccoli.
Un circolo vizioso che si riaffaccia a ogni cambio stagione, accompagnato da un marketing coerente con la tendenza più in voga, ma la cui placida ridondanza oggi impone qualche riflessione in più.
Da anni ormai le linee guida che descrivono una sana alimentazione sono disponibili e facili da raggiungere, è sufficiente compiere una ricerca online o bussare alla porta del proprio medico di base. Sono informazioni chiare e che non si allontanano nemmeno troppo dalle abitudini gastronomiche di una persona cresciuta nell’area mediterranea, eppure l’inclinazione a cercare una dieta alternativa, spesso estremamente restrittiva e malsana, e investire tempo, sforzi e denaro per perseguirla, ogni anno coinvolge migliaia di persone, che generano un mercato che supera i quattordici miliardi di euro, secondo i dati raccolti dalla Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima).
Tali diete alternative sono accomunate da alcuni elementi, innanzitutto raramente vengono prescritte o accreditate da un professionista del settore, medico di base, dietista o nutrizionista che sia.
In secondo luogo si basano tutte su una summa di regole restrittive e spesso estremamente rigorose, ma semplici da comprendere: aumentare le proteine, eliminare il glutine, o il lattosio. A fronte di questo sacrificio garantiscono di risolvere qualunque problema – mal di stomaco, cefalee, infezioni ricorrenti alle vie urinarie, gonfiore diffuso – ma, soprattutto, promettono di far raggiungere a qualsiasi corpo, che sia basso o alto, giovane o anziano, sano o malato, una forma longilinea, soda e leggera.
Una promessa che – oltre a essere contraddittoria nella sua stessa formulazione, ma di questo tratteremo poi – si basa su un assunto precedente, ossia il fatto che l’alimentazione seguita fino a quel momento sia stata sbagliata, squilibrata, inadatta al proprio organismo, insomma, che ci sia un problema da risolvere e che la nuova dieta sia appunto la soluzione magica di cui c’era bisogno.
Una soluzione magica e soprattutto semplice, spesso rapida, che magari richiede qualche sacrificio, ma che è facile mettere in pratica, basta eliminare una categoria di prodotti, toglierli dalla dispensa, trasformali nei grandi antagonisti della propria storia, ed è fatta.
O almeno così potrebbe sembrare per un po’.
Infatti il terzo elemento che accomuna ognuna di queste diete è che – per fortuna – a lungo termine si rivelano tutte insostenibili, sia perché impongono una serie di privazioni con cui è difficile convivere, sia perché finiscono per mettere in pericolo la salute fisica e psicologica di chiunque vi si sottoponga.
I dati dimostrano non solo che meno del venti percento delle persone che si sottopongono a una dieta restrittiva riesce a mantenere il peso ottenuto per più di un anno, ma anche che gli effetti collaterali psicofisici di tale dieta impattano fortemente sulla salute a lungo termine.
Uno dei nodi della questione sta proprio qui secondo il dottor Gabriele Bernardini, biologo nutrizionista e autore della pagina La Somma e il Totale. Bernardini infatti ci spiega che i concetti di rischio o di rischio a lungo termine sono nozioni difficili da maneggiare, e finiscono spesso per essere surclassati dal desiderio di rientrare il più presto possibile in uno standard estetico, o in un paio di pantaloni. È più facile pensare che per raggiungere la forma fisica desiderata basti togliere del tutto un alimento, e allora viene da pensare che in fondo le tendenze sono tante e se una dieta non ha funzionato si può sempre provare qualcosa di diverso, magari il «problema» di cui si soffre non sono gli zuccheri in eccesso, forse è il lattosio, o il nichel, e così si cambiano il menu e la lista della spesa e ci si costringe a nuove rinunce. D’altronde se la propria alimentazione è difettosa, ci dovrà pur essere una soluzione, una cura, bisogna solo trovarla.
Si tratta di un comportamento diffuso, poco mappato ma che è facile osservare nella quotidianità e con cui gli esperti del settore si trovano a dover lavorare continuamente. La dietista Giada Bellissimo, esperta in disturbi del comportamento alimentare (Dca) e che lavora seguendo un approccio inclusivo al peso, ci racconta che la frase che sente ripetere più spesso è «Dottoressa io non so come mangiare», una convinzione frutto di anni trascorsi fruendo informazioni discordanti e polarizzate in merito all’alimentazione, che finiscono per creare la convinzione di non sapersi alimentare, di aver bisogno di una dieta, di una terapia.
«È molto difficile – continua la dottoressa Bellissimo – far accettare il fatto che essere sani non significa essere magri, e viceversa che avere un corpo grasso non vuol dire essere malati. I corpi sono diversi, influenzati dalla genetica e da molti altri fattori».
Il mercato della dieta dunque si fonda e cresce su una richiesta impossibile da realizzare: ottenere corpi innanzitutto magri e poi, se possibile, anche sani. Una sfida ingannevole che costringe chi vi si sottopone a uno stress costante, sia fisico che mentale, e l’esito, spiega la dottoressa Bellissimo, è un cattivo rapporto con il cibo, un’alimentazione disordinata, malsana e, nei casi peggiori, l’esordio di un disturbo alimentare vero e proprio.
Secondo le stime aggiornate a marzo 2024 dal Ministero della Salute, in Italia circa tre milioni e duecentomila persone soffrono di disturbi alimentari. È un numero alto, che è peggiorato durante e dopo la pandemia, con un incremento di casi di almeno il trenta per cento e un abbassamento dell’età di esordio delle diverse patologie, eppure si tratta solo di una parte del problema.
Infatti se accanto all’ampio insieme dei disturbi alimentari poniamo la confusa nebulosa che riguarda i disordini alimentari, il quadro si amplia, diventa difficile da delineare e inizia a coinvolgere una cifra ben più ampia di individui. Sono donne e uomini che non possiedono tutti i sintomi di un determinato disturbo alimentare, ma vivono comunque in modo conflittuale il proprio rapporto con il cibo, seguendo comportamenti dettati da regole autoimposte, risultato di nozioni recuperate su varie fonti e riadattate a seconda dei propri gusti e delle abitudini famigliari, nella convinzione di seguire un’alimentazione corretta.
La conseguenza è che si smette di ascoltare e accogliere i propri desideri alimentari, i segnali della fame o della sazietà, ma si smette anche di dare importanza alle linee guida ufficiali, si rinuncia a selezionare le fonti, si mettono sullo stesso piano consigli sanitari e i suggerimenti trovati per caso su TikTok. Come se ciò che mangiamo non influenzasse la nostra salute e ciò che riusciamo o non riusciamo a fare, oggi e in futuro.
Secondo la dottoressa Bellissimo, però, esiste anche chi riesce a conservare un rapporto felice con l’alimentazione, resistendo alla grassofobia e al desiderio di provare a ottenere un corpo che rientra negli standard proposti dalla società e mantenendo un’alimentazione neutra, priva di giudizi morali su ciò che mangia. Per iniziare a costruire una buona relazione con il cibo e con il proprio corpo, però, è necessario anche alienarsi dalla facile logica del bianco e del nero, aggiunge il dottor Bernardini, e iniziare a ragionare in termini di proporzioni ed equilibrio, comprendere che tutto si può mangiare, ma nelle corrette quantità e frequenze. Solo in questo modo si potrà ottenere un’alimentazione sostenibile e soprattutto sana.