L’umore della mia giornata può cambiare moltissimo alle nove del mattino, quando apro lo Spelling Bee del New York Times e vedo che lettere ci sono quel giorno. Spelling Bee è un giochino in cui, con sette lettere, devi comporre più parole possibili. I giorni in cui tra le lettere ci sono la “i” e la “n” e la “g” sono giorni di cuccagna: posso fare il gerundio di tutti i verbi.
Non molto tempo fa, in una giornata gerundiva, ho scritto nelle storie di Instagram che avevo imparato una cosa: tra i gerundi di quel giorno c’era quello di «graffiti», il verbo; che, avevo scoperto, si scrive con due “i”, «graffitiing».
A commento, m’è arrivato il messaggio d’una fanciulla che conosco, la quale mi ha spiegato che per lei giornate come quella, in cui lo Spelling Bee per venire completato aveva così tante parole, erano fonte d’ansia. Ho tralasciato di spiegarle uno dei miei più tenaci convincimenti (l’ansia, come la premenopausa, è un’invenzione di questo decennio con troppi psicologi da non disoccupare), e le ho detto che era un buon segno, se il suo principale problema erano le troppe parole in Spelling Bee: si chiama benessere.
Ieri, un giornalista americano commentava sconcertato un sondaggio elettorale secondo il quale il settantanove per cento (un’enormità) delle femmine della Generazione Z sottoscrive l’affermazione «i problemi di salute mentale sono una parte importante della mia identità». La generazione Z, secondo la fessa tassonomia del caso, include i nati tra il ’97 e il 2012, ma essendo un sondaggio elettorale immagino che nel campione non ci siano dodicenni. Quindi, ridotto ai maggiorenni, il settantanove per cento del campione femminile tra i diciotto e i ventisette anni si identifica come malato di mente. D’altra parte io alla loro età leggevo il Manifesto e disegnavo la croce celtica sullo zainetto Invicta: in qualche modo devi pur illuderti d’essere interessante, all’età alla quale non hai strumenti per esserlo. Devi pur procurarti problemi, se non ne hai di veri, e sai cos’è il non avere problemi veri? Si chiama benessere.
In una conversazione con suo figlio Emanuele pubblicata nel 2007, lo psicanalista Mario Trevi raccontava che, dopo la morte della sorella, aveva preso da casa sua l’edizione Einaudi della “Ricerca del tempo perduto”, e l’aveva trovata annotata a matita: la sorella aveva corretto tutti i refusi. Leggendo la riedizione del libro che esce oggi (il libro dei Trevi, non quello di Proust: s’intitola “Invasioni controllate”, lo pubblica Ponte alle grazie), ho ripensato a me che l’altro giorno cercavo una citazione in una conversazione del 2008 tra Martin Scorsese e il critico Roger Ebert, ma sono inciampata su un «abut» in luogo di «about», e ho dovuto smettere di leggere. Lo sappiamo tutti come si chiama questo eccesso di tempo libero e di nevrosi che accomuna me e Mariù Trevi: si chiama benessere.
Quest’estate ho letto un articolo preoccupatissimo per come cambiavano le strade di New York, una volta nella bella stagione piene di gente e ora no perché la nuova umanità alienata non esce di casa giacché a casa ha l’aria condizionata – oltre ad avere telefoni che la tengono in contatto col mondo praticamente gratis, piattaforme che la intrattengono, e tutte cose. Sai come si chiama, il non dover pagare il biglietto del cinema o una costosa bolletta telefonica e potersene stare freschi a casa? Si chiama benessere.
Almeno una volta a settimana mi compare un tweet, o come si chiamano ora, in cui qualcuno si lamenta di quel gravosissimo problema che è dover decidere ogni giorno cosa mangiare. A volte fanno ridere (la settimana scorsa Flavia Vento si lamentava che non fossimo stati creati capaci di funzionare a sola acqua, e io mi sono chiesta, se non avessimo questo problema delle energie da metabolizzare, io che scuse avrei questo mese per il tartufo). Più spesso pretendono d’essere presi sul serio. Domenica una scriveva: «Nessuno ti dice da piccola che la cosa più pesante nel diventare adulti è pensare a cosa cucinare ogni santissimo giorno, 2 volte al giorno, pranzo e cena», e nessuno le rispondeva: lo sai come si chiama quando la cosa più pesante della tua quotidianità è il pensiero del menu? Si chiama benessere.
Un altro dibattito che si porta molto sui social è quello su quanto siano vessatorie le quaranta ore di lavoro a settimana, cioè meno di un quarto delle ore che ci sono in una settimana. È sempre condotto con grandi equilibrio e lucidità e intelligenza, come tutti i dibattiti social: tempo fa mi è passato davanti qualcuno che dava sfogo a tutta la propria sanità mentale dicendo «io non capisco come la gente non abbia ancora preso esempio da Robespierre con 40 ore»; in effetti dovremmo tagliare la testa a qualcuno (ai sindacalisti? ai padroni? ai proprietari dei social?) e tornare alle miniere, ai campi, a quei posti senza diritti e pause pranzo e otto misere ore lavorative al giorno, delle quali ci possiamo tuttavia lamentare, sai perché? Perché abbiamo risolto i problemi seri, e i problemi immaginari sono tutto ciò che ci ha lasciato il benessere.
«Ai tempi delle BR la giustizia avrebbe già fatto il suo corso», scrive qualche altro prodotto della libera espressione in libere piattaforme, e il tema della conversazione è Chiara Ferragni, alla quale evidentemente il nostro pensatore – che potrebbe pensare ancora più a lungo se solo non fosse vessato da otto ore d’ufficio – alla quale il nostro evidentemente ritiene sia bene sparare alle gambe per punirla del fatto che i bambini dei reparti oncologici continueranno a essere curati dal servizio sanitario nazionale invece che da Chiara stessa, che in qualche sogno bagnato dell’internet passa in reparto a distribuire fantastiliardi travestita da crocerossina. È l’indignazione per Chiara Ferragni, è l’auspicio d’un brigatismo che la castighi un segno di malessere e bisogno di bonus psicologo? Nah: è il segno che al tizio (e a molti altri tizi) l’invenzione degli elettrodomestici e la riduzione della giornata lavorativa a otto ore hanno liberato moltissimo tempo, tempo che difficilmente verrà trascorso a correggere i refusi della “Recherche”: si chiama benessere.
«Shakespeare non doveva mai pensare a quando avrebbe avuto tempo di lavarsi i calzini», risponde qualcuno a chi fa presente che quello in due anni scrisse l’“Otello” e il “Re Lear” e il “Macbeth”, ed è un tema che mi appassiona, e del quale mi vergogno in silenzio ogni volta che qualcuno mi chiede «stai scrivendo?» e io faccio la faccia seria mentre dico «neanche una riga, ma ho tutto in testa» (che solo chi fa il mestiere di scrivere sa che cialtronata di risposta sia), è un tema del quale discuto da almeno quattro anni, da quando la gente diceva eh ma come si fa a produrre durante la pandemia, devi aiutare i figli con le lezioni su Zoom. Quello a Londra aveva la peste e nessun vaccino nell’immediato futuro, ma certo: non aveva le lezioni su Zoom. Sai come si chiama quando il tuo problema è Zoom? Sai come si chiama quando per i calzini hai la lavasciuga e non devi andare a lavarli al fiume? Si chiama benessere.
Dice eh sì, Camus scrisse “Lo straniero” in due mesi, ma mica aveva il trauma della pandemia, lo stress del telelavoro, la polemica sul ritorno in ufficio che ci vessa costringendoci al pendolarismo e a saltare la lezione di yoga al mattino e con la salute mentale come la mettiamo? Lo sai come si chiama, quando fuori non c’è la seconda guerra mondiale, e tu oltre alla lavasciuga hai l’Esselunga che ti consegna la spesa a casa, un telefono con dentro tutte le enciclopedie del mondo, i ristoranti di tutta la città che ti portano la cena, e tuttavia “Lo straniero” non lo scrivi in due mesi né in duecento? Si chiama benessere.
«Resta il fatto che, anche se non li mettiamo su nessun altare, i modelli servono», dice Mario Trevi al figlio in “Invasioni controllate”. Meno male che Emanuele Trevi nel frattempo ha vinto lo Strega e finalmente vende libri e quindi possiamo diciassette anni dopo permetterci di vessare i lettori ristampando questa conversazione stupendissima della quale si lamenteranno perché non ci sono i nomi dei parlanti né le virgolette, e insomma, mica pretenderete che io dopo otto ore d’ufficio e senza il bonus psicologo capisca chi parla solo dagli a capo, è proprio il secolo più difficile della storia dell’uomo, siamo proprio la generazione più maltrattata di tutti i tempi. La senti questa lamentela? È il suono che fa il benessere.