The Social UncoolnessL’impresentabile Musk, gli ormoni ai bambini e una possibile sorpresa elettorale

La grande energia che anima la campagna elettorale dei Democratici dovrà confrontarsi con le militanti del femminismo essenzialista e con il passare del tempo che fa dimenticare la figaggine anche di Obama

AP/Lapresse

Nella sceneggiatura di “The Social Network”, la parola «cool» viene detta tredici volte, eppure paiono centotrenta. Lo guardi e ti sembra che il suo tema sia la coolness almeno quanto l’uncoolness era stata centrale, dieci anni prima, in “Almost Famous”.

“The Social Network” esce nel 2010, e si muove tra un passato in cui Mark Zuckerberg ha creato Facebook e un presente in cui è coinvolto in due cause legali con ex amici o conoscenti. Il passato è tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004, quando Zuckerberg ha diciannove anni: ovvio che fare la cosa che i suoi coetanei reputano cool sia una sua priorità.

È interessante rivederlo adesso che sono passati quattordici anni dal film e sedici da quando eravamo tutti corsi su Facebook, demolendo il concetto di coolness iniziale dettagliatamente descritto nel film: un posto dove potevi stare solo se avevi una prestigiosa mail di Harvard, se eri l’élite, se eri uno dei felici pochi.

Adesso che siamo tutti troppo vecchi per la coolness, ho amici che, quando mando loro qualcosa trovato su Facebook (i social network hanno come scopo precipuo il fotografare le performance altrui e mandarle agli amici dicendo «ma l’hai visto questo cretino?»), trasecolano: oddio, ma tu apri ancora Facebook? Lo dicono col tono con cui a tredici anni parlavamo dello zainetto Invicta del colore sbagliato.

Facebook doveva essere cool e ha però fatto i soldi veri con l’uncoolness. Sembra passata una vita e non sono neanche due decenni, d’altra parte assai più di recente nessuno avrebbe preso sul serio un tizio coi baffi che dice d’essere una donna trans, cioè una donna tale e quale alle donne, e adesso se non lo fai sei impresentabile, e qui passiamo da Zuckerberg a Musk, cioè restiamo ai capricci di fantastiliardari evidentemente autistici che però non arricchiscono istituti che li certifichino come voialtri cui pare cool dirvi neurodiversi.

La settimana scorsa Elon Musk ha fatto un’osservazione brillantissima sulla dicitura «deadnaming», cioè la parola che i credenti nella religione dell’identità di genere usano per definire il peccato mortale di chiamare Asdrubale uno che dalla nascita si chiamava Asdrubale, di chiamarcelo dopo che Asdrubale ha deciso di chiamarsi Violetta.

L’osservazione era «si chiama deadnaming per questo, perché quella persona è morta», ed era contenuta in una risposta di un’intervista in cui raccontava la storia di uno dei suoi non so più quanti figli (Elon Musk si riproduce più delle ballerine mormone, e io non gli sto dietro). Figlio che a un certo punto ha deciso di non chiamarsi più Xavier Musk ma Vivian Wilson, cognome della madre, prima moglie di Musk (lui, durante il ballo della festa di nozze, le avrebbe sussurato «in questa coppia sono io l’alfa», che è una cosa che può dire solo un beta smanioso).

Ha raccontato che questo figlio era nato gay e lievemente autistico, e poi è andata come va in California: se non sei trans sei uncool, e quindi il figlio era morto, dato che ora si riteneva una figlia. (Musk aveva detto al suo biografo d’aver venduto una casa quando lo stesso figlio aveva avuto la fase marxista e gli facevano orrore le proprietà immobiliari, a conferma di quanto gli adulti che tentano di compiacere i figli siano, oltre che pappemolli, pure inefficaci).

Vivian va dal rivale Zuckerberg, cioè su Threads, a rispondere all’intervista. Dice che nessuno degli episodi d’infanzia raccontati dal padre è mai accaduto (il che non ha alcuna attendibilità: tra un padre che vuole passi la sua versione della storia, e qualcuno che pretende di ricordarsi cosa faceva a quattro anni, è una bella gara di credibilità).

Dice che per essere una stronza morta è abbastanza in forma. Dice che Elon sta traumatizzando per sempre i figli che ha avuto con Grimes tenendoli separati dalla madre (la madre di Grimes ha invece usato il social di famiglia per una serie di tweet passivo-aggressivi sul biglietto per la festa del papà che ha aiutato il nipote a preparare e Elon che si è portato il figlio alle olimpiadi invece di lasciare che andasse a trovare la bisnonna che sta morendo: è il secolo in cui le famiglie dei fantastiliardari vanno a esibire i fatti loro sui social come una volta le famiglie qualunque andavano da Alberto Castagna).

Ma niente di quello che dice conta quanto conta il video che posta a un certo punto, e qui passiamo dalle crisi isteriche delle militanti d’una fazione a quelle della fazione opposta: mi raccomando, non confondetevi con gli screenshot quando dovete darmi alternativamente della transfobica e della vile che soccombe al ricatto del gender.

Il fatto è che, in quel video, Vivian è una ragazza. Non: un maschio che ci prega di percepirlo femmina contando che le nostre buone maniere c’impediscano di spernacchiarlo. Succede, ogni tanto: ne avevo già scritto quando a “Uomini e donne” c’era una tronista trans. Ogni tanto, c’è qualcuna che passa. «Pass» era l’obiettivo principale dei transessuali, raccontano gli americani della vecchia guardia: passare per qualcuno che sia davvero di quel sesso. È un’idea finita nell’umido da quando i transessuali li chiamiamo transgender, e guai a dire che la transizione è una brutta fatica e tagliarsi il cazzo non è lo stesso impegno che mettersi lo smalto alle unghie e dire ora chiamami Sofia anche se ho la barba.

Questa cosa che la transizione sia una cosa di dolore e spavento e chirurgia è entrata nell’indicibile, il che mi sembra tragico ma anche esilarante: un anno fa ho scritto che Yole Signorelli, in arte Fumettibrutti, si era «fatta tagliare da un medico degli organi sessuali perché ha deciso di non essere del sesso di cui l’aveva fatta la natura», e di tutte le frasi che mi vengono rinfacciate dicendomi di vergognarmi è quella che più mi fa sembrare ubriachi i rinfacciatori.

Quindi: a chi milita da una parte non puoi dire che una donna trans è una che s’è fatta tagliare il cazzo; a chi milita dall’altra non puoi dire che, se una ci tiene talmente tanto a farsi dire «lei» da tagliarsi degli organi, a me non fa nessuna fatica chiamarla «lei».

Le mode è inutile discuterle, e sappiamo tutti che il primo posizionamento attualmente è cool e il secondo è uncool. Quindi hanno tutti esultato per Vivian che gliele cantava a Elon. Però io vorrei, dopo poco più di cento righe, arrivare alla cosa che davvero mi premeva dire in questo articolo, e cioè: siete sicuri che i meme su Kamala Harris bastino, con la loro coolness, a far dimenticare l’ordinanza esecutiva 14021?

Vedo in giro una convinzione ingenua circa il fatto che Biden abbia fatto tutte le cose giuste e di sinistra e se una non è una nazista dell’Illinois non possa votare Trump. Vedo molta campagna sulla questione dell’aborto (su cui Biden non ha fatto niente, proprio come niente aveva fatto Obama, ma ehi, dice Harris che se votano lei la legge arriverà: sembra un po’ quei mariti che ti hanno menata fino ad allora ma promettono di cambiare). Vedo anche un gigantesco rimosso sul title IX.

Il title IX è una legge vecchia come me che tutela il diritto delle ragazze di fare sport a scuola (sì, sono un paese talmente scemo che ha avuto bisogno di fare una legge per farle giocare a pallavolo, d’altra parte hanno avuto bisogno d’una legge per far stare i neri nelle stesse sale d’attesa dei bianchi – ma, ehi: la più grande democrazia del mondo).

Trump aveva fatto specificare che la legge tutelava il sesso femminile, non il genere percepito. Biden all’inizio della sua presidenza ha sanato questa correzione – percepita uncool e transfobica – e messo nella dicitura l’identità di genere: dopo la partita di pallavolo, John che ora si chiama Jackie, e il pisello che ha ma non percepisce, possono denudarsi nello spogliatoio delle ragazze.

Se vi sembra una stronzata irrilevante, forse vivete in una grotta e non avete mai incontrato l’esatto opposto di chi ritiene che il deadnaming si possa chiamare senza mettersi a ridere «genocidio trans». L’esatto opposto, altrettanto invasato, sono le essenzialiste biologiche, convinte che l’ideologia trans sia un modo per togliere spazi e diritti alle donne, nonché per avvelenare i bambini riempiendoli di ormoni (peccato che tra cinquant’anni sarò morta, perché lo spettacolo degli adulti con osteoporosi che fanno causa al governo degli Stati Uniti per aver permesso che fossero imbottiti d’ormoni dannosi sarà notevole).

Io non credo che gli analisti politici abbiano idea di quanto sono incazzate le militanti del femminismo essenzialista. Di quanto la somma di tutto – le scuole che in California non devono più avvisare le famiglie della transizione degli adolescenti, la pubblicistica cool che le pitta come delle beghine frustrate, l’inaccettabilità sociale del mettersi a ridere se qualcuno ti dice che è non binario, cioè non mammifero – possa generare una sorpresa elettorale.

Certo, sarebbe un one issue vote. Ma lo sarebbe anche votare per Kamala perché tutelerà l’aborto, no? Solo che un one issue vote è cool, e l’altro è uncool. Ma, se c’è un posto dove nessuno sa se sei uncool, è la cabina elettorale. Dio ti vede, Dylan Mulvaney no.

A un certo punto di “The Social Network” entra in scena Sean Parker, e da lì discende tutta la dinamica per cui Zuckerberg litiga e poi finisce in tribunale col suo amico e fino ad allora socio – ma non è questo che c’importa qui. Sean Parker è quello che gli dice di non monetizzare subito perché «Un milione di dollari non è cool, sai cos’è cool? Un miliardo di dollari». Nella pausa tra il suo farsi la domanda e il suo darsi la risposta, quello che presto diventerà ex amico ed ex socio butta lì: «Tu?».

Lo fa col sarcasmo dietro cui ci si nasconde quando proprio non si sa gestire la fighezza di chi si ha di fronte. In quella scena lì, l’entrata al ristorante di Sean Parker era descritta in sceneggiatura come «Chi è questo tizio che entra con la sicumera d’un giovane Frank Sinatra?». Non c’era bisogno di dire altro, perché tutti abbiamo un’idea di Sinatra, e se non siamo in coma corrisponde alla nostra idea di coolness.

Sean Parker lo interpretava Justin Timberlake, che due anni prima duettava con Madonna, due anni dopo con Jay-Z, e nessuno era più cool di lui, che tre anni dopo avrebbe sposato quella strafiga di Jessica Biel in Puglia.

Sono passati quattordici anni. Justin Timberlake attualmente è uno che è stato arrestato per aver guidato da strafatto, e la prima associazione di idee che chiunque fa al suo nome è che Britney Spears nella sua biografia l’ha descritto come il più indesiderabile degli ex fidanzati. Quanto al posto übercool in cui si era sposato, era un certo Borgo Egnazia, e forse ve ne ricordate: ha anch’esso di recente avuto modo di declinare nella collettiva percezione di coolness.

La coolness passa, se non sei Frank Sinatra; e, per capirlo, basta vedere l’imbarazzantissimo video in cui Michelle e Barack chiamano Kamala. Sembra ieri che non ne sbagliavano una. Era solo quattro anni fa che, andando via dal comizio di Biden, Obama faceva quel distratto canestro camminando all’indietro. Forse non capiva niente di politica, ma di certo nessuno era cool come lui. Poi chissà che è successo. Però Zuckerberg fattura di più da uncool, quindi non è detto sia un male. C’è solo il problema che, se l’oggetto della gara è l’uncoolness, Trump vince facile.

X