Risorsa versatileIl futuro dell’idrogeno è incerto

Nonostante l’attenzione posta da attori chiave, come Unione europea, Cina e Stati Uniti, serve un’accelerazione dello sviluppo di una delle componenti più promettenti nella decarbonizzazione dei sistemi energetici globali

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Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul numero 61 di We – World Energy, il magazine di Eni

L’idrogeno è ormai ampiamente riconosciuto come una delle componenti più promettenti della transizione energetica, sia per sostituire i combustibili fossili nei cosiddetti settori hard-toabate (ossia i più complessi da decarbonizzare, come il siderurgico o il chimico), sia per favorire l’integrazione delle rinnovabili nei sistemi energetici (come lo stoccaggio). Grazie a questo duplice ruolo tanto nell’industria che nella generazione elettrica, l’idrogeno ha ricevuto un’attenzione sostanziale da parte di attori chiave negli ultimi anni a livello globale – in particolare l’UE, ma anche Cina e Stati Uniti – con capacità di produzione in espansione e una presenza trasversale tanto in pacchetti legislativi (il Fit-for-55 della Commissione von der Leyen, ad esempio), che in iniziative e strategie nazionali (incluso il Piano Mattei).

Nonostante questi avanzamenti, il consumo di idrogeno rimane ancora limitato, la produzione principalmente derivata dai combustibili fossili (cosiddetto “idrogeno grigio”) e gli usi perlopiù ancora tradizionali (raffinazione del petrolio o produzione di ammoniaca, ad esempio). Non è quindi chiaro se i progetti e gli strumenti messi a disposizione a livello globale saranno sufficienti per realizzare il potenziale della risorsa nelle tempistiche strette imposte da una transizione energetica che bisogna accelerare quanto prima.

Punti di forza e punti deboli
La versatilità è il punto chiave dell’idrogeno. Nella generazione elettrica rappresenta un modo più economico e adattabile di stoccare energia rispetto alle batterie al litio o ad altre tecnologie (come lo stoccaggio idroelettrico). Si integra bene con le rinnovabili intermittenti perché, in caso di eccesso di generazione rispetto a una domanda bassa, si può produrre idrogeno invece che ridurre la produzione di energia (il cosiddetto “curtailment”).

L’idrogeno prodotto potrà poi essere impiegato sia per generare elettricità in futuro che per una vasta gamma di altri usi. È qui che il gas esprime tutto il suo potenziale: l’idrogeno può essere usato sia nei trasporti (su strada, via mare, etc.) che nei processi produttivi (in particolare delle industrie energivore). Sono applicazioni in rapida crescita; nel 2023, la Norvegia è stato il primo paese a mettere in funzione un traghetto a idrogeno e progetti simili sono in via di finalizzazione negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Progetti come HyInHeat (finanziato dall’Europa, mira a integrare l’idrogeno come combustibile per i processi di riscaldamento ad alta temperatura nelle industrie ad alta intensità energetica) stanno cercando di diffondere l’uso della risorsa nel settore metallurgico, in particolare per la produzione di acciaio e alluminio.

Il problema principale è che, mentre lo stoccaggio è un uso già relativamente maturo, la maggior parte di queste applicazioni sono a livello ancora sperimentale o progettuale, e un mercato dell’idrogeno globale è ancora lontano dall’esistere veramente. Secondo i dati dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, la Iea, la domanda di idrogeno mondiale è sì in costante crescita (3 percento in più dal 2021 al 2022), ma questo aumento è dovuto quasi interamente agli usi tradizionali dell’idrogeno, che è prodotto inoltre interamente tramite gas o carbone (quest’ultimo soprattutto in Asia). Per riuscire a raggiungere un’integrazione completa dell’idrogeno nei sistemi globali, secondo la Iea la domanda dovrà crescere di una volta e mezza al 2030, raggiungendo i centocinquanta milioni di tonnellate, di cui però almeno un terzo per nuove applicazioni.

La sfida dell’idrogeno adesso è infatti duplice: da un lato bisognerà creare un’economia dell’idrogeno (e soprattutto una domanda) che sono ancora largamente inesistenti o estremamente settoriali. Allo stesso tempo si dovrà trattare di un aumento tanto della produzione che del consumo compatibili con l’azione climatica globale; dovrà, cioè, essere idrogeno verde (o comunque a emissioni zero), e utilizzato principalmente nell’ambito della transizione energetica (e non per gli impieghi tradizionali). Non è un obiettivo impossibile, ma servirà una rapida accelerazione dello sviluppo della risorsa, e una serie di azioni mirate ad affrontare ostacoli specifici.

Costruire un’economia dell’idrogeno vorrà dire incentivare il consumo in settori chiave tramite sussidi e agevolazioni, concentrandosi però su quelli più promettenti; riguardo al trasporto su strada, ad esempio, nonostante le auto a idrogeno siano una tecnologia già consolidata e usata in Corea del Sud e Cina, la diffusione è stata lenta e limitata. Di fronte alla concorrenza di altre tecnologie per la mobilità alternativa, le auto elettriche in particolare, e alla difficoltà di creare una rete di distribuzione capillare dell’idrogeno, questo potrebbe essere uno dei settori a cui dare meno attenzione in futuro – con l’eccezione forse del trasporto pesante che, non affrontando ancora la competizione dell’elettrico, potrebbe avere spazio per mezzi a idrogeno come i camion di Volvo, Toyota e Nikola. Lo stoccaggio e gli usi industriali sono invece molto più promettenti, ma richiederanno anch’essi un’attenzione particolare, in particolare riguardo ad aspetti tecnici ancora da risolvere completamente. Le tecnologie di stoccaggio potrebbero rivelarsi costose (la liquefazione) o poco efficienti a causa della piccola dimensione della molecola (compressione).

Inoltre, il ciclo “produzione di idrogeno con energia in eccesso-stoccaggio-produzione di elettricità tramite idrogeno” ha ancora un livello di efficienza basso – se l’efficienza del processo di elettrolisi che genera l’idrogeno è intorno al sessanta per cento, per tutto il ciclo è circa la metà. Il costo di costruire un nuovo set di infrastrutture dedicato alla distribuzione della risorsa ne rappresenta poi un grosso limite allo sviluppo, soprattutto di fronte a una domanda ancora incerta. La riconversione di infrastrutture pensate per il gas naturale è un’opzione che potrebbe alleviare significativamente l’impatto economico, ma bisognerà comprenderne esattamente il potenziale e i costi reali: finora è stata messa in pratica in poche occasioni (una delle prime è stata fatta nel 2023 dall’azienda tedesca Oge nel gasdotto tra Emsbüren-Bad Bentheim e Bad Bentheim-Legden, in Bassa Sassonia) e i costi potrebbero essere superiori a quelli previsti.

Acer, l’agenzia europea per la cooperazione fra i regolatori nazionali dell’energia, stimava nel 2021 che la capacità di trasporto dell’idrogeno di un gasdotto tradizionale potrebbe arrivare fino all’ottanta per cento, ma che servirà, ad esempio, una compressione tre volte superiore. La necessità, infine, che tutto questo nuovo idrogeno sia verde comporterà anche un aumento corposo della generazione rinnovabile – il Jrc nel 2021 ha stimato che siano necessari 8.900 – 9.800 GW in più entro il 2050 a livello globale, principalmente di eolico e solare.

Il coinvolgimento europeo (e non solo)
Sono ostacoli complessi ma risolvibili, soprattutto dal lato tecnico, come successo per altre tecnologie in passato – è stato il caso del solare fotovoltaico, il cui costo di generazione è crollato del 90 percento nel periodo 2011-2015. Questo soprattutto grazie all’attenzione importante che attori chiave nel settore energetico a livello globale stanno già dando all’idrogeno. Tra tutti, l’UE è sicuramente uno dei più avanzati ed è stata tra i primi ad agire in questo ambito, pubblicando una Strategia nel 2020, seguita da una serie di proposte contenute nel piano REPowerEU e in Fit-for-55, incluse poi sia nella nuova direttiva per le energie rinnovabili (in vigore da novembre 2023) sia in una serie di misure dedicate (il pacchetto sul mercato dell’idrogeno e del gas decarbonizzato, in vigore da maggio 2024).

Tutto questo si è tradotto in una serie di misure pratiche rilevanti: la creazione di un’agenzia per l’idrogeno, ENNOH, simile agli equivalenti ENTSO-E (elettricità) ed ENTSO-G (gas), di una Banca Europea dell’Idrogeno per sostenere progetti (con un esborso di 720 milioni per sette iniziative solo nella prima metà del 2024), oltre al finanziamento di altre iniziative tramite ulteriori strumenti – è il caso dell’ultima lista dei PCI, i Progetti di Interesse Comune, il cui budget è stato dedicato per oltre un terzo a infrastrutture legate all’idrogeno.

L’obiettivo dell’UE è quello di riuscire a raggiungere l’ambizioso obiettivo – posto con REPowerEU – di consumare 20 milioni di tonnellate di idrogeno verde entro il 2030 (metà importate, metà prodotte a livello domestico). Chiave per l’UE sarà non solo quindi stimolare una produzione europea, ma anche nuove connessioni con partner come Algeria, Marocco o altri eventualmente oltreoceano – un obiettivo contenuto anche nelle strategie nazionali per l’idrogeno di paesi come Spagna e Italia.

Questo coinvolgimento non è però solo europeo. Per gli Stati Uniti la questione è meno strategica che per l’UE, perché in Europa l’idrogeno potrebbe supportare anche la diversificazione energetica dalla Russia. Nonostante questo, gli Stati Uniti hanno inserito una serie di misure molto rilevanti per l’idrogeno nell’Inflation Reduction Act, l’IRA, del 2022, che si traducono principalmente in credito d’imposta e altri incentivi fiscali pensati anche per aumentare la produzione domestica di macchinari come gli elettrolizzatori. Su questi ultimi, in realtà, la Cina ha già una leadership solida, con una capacità di quasi 220 MW nel 2022 (secondo la IEA) e con altri 750 MW che sarebbero dovuti entrare in funzione già nel 2023 (i dati non sono però ancora disponibili). Secondo la consultancy energetica norvegese Rystad Energy, Pechino però potrebbe arrivare già a fine 2024 al target di 2,5 GW previsti per il 2025. A questo si aggiungono alcuni importanti progetti di gasdotti pensati per l’idrogeno e che potrebbero connettere l’area intorno a Pechino (energivora) con la produzione rinnovabile delle province a nord (Mongolia Interiore, Hebei).

Lo sviluppo però forse più interessante potrebbe essere in regioni ad alto potenziale rinnovabile, ma con scarsa domanda locale tanto di energia che di idrogeno stesso, e che quindi potrebbero esportare la risorsa. È il caso, ad esempio, della Namibia e del Sud Africa, al momento gli unici due paesi dell’Africa Sub Sahariana ad avere una strategia dedicata alla molecola, entrambi con grande potenziale sia solare che eolico. Il Sud Africa in particolare, avendo già il 90 percento della popolazione con accesso all’energia (a differenza del cinquantacinque per cento della Namibia) potrebbe, in questo senso, dedicare parte della nuova capacità rinnovabile in zone remote, come il Northern Cape, all’esportazione.

Il Cile, allo stesso modo, sta affrontando un boom di eolico e solare in tutto il paese e soprattutto nel deserto di Atacama, ma il curtailment ancora molto rilevante rappresenta un fortissimo limite allo sviluppo ulteriore delle rinnovabili. Di fronte alle difficoltà geografiche di sviluppare reti in un paese molto lungo e con una popolazione molto dispersa, l’espansione dell’idrogeno potrebbe rappresentare l’occasione per superare ostacoli che potrebbero altrimenti rallentare la transizione in maniera drastica. In questo senso sarà però necessario lo sviluppo di un mercato globale dell’idrogeno che sostenga queste esportazioni, e che in generale sarà fondamentale per abbassare i costi della tecnologia anche nelle altre regioni.

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