Prima di scrivere questo articolo ho cercato in rete come viene vista la cucina ucraina. Lascio da parte quel vulcano di emozioni che ho sperimentato in un attimo, non è questo lo spazio per esprimerli. Tuttavia se della cucina ucraina si sa ancora poco, se essa viene ancora rappresentata attraverso il prisma russo, ci saranno dei motivi, e di certo non perché non abbia nulla da offrire. Una terra come quella ucraina, ricca di fiumi, con due mari, boschi, montagne, pianure e il terreno fertile, non potrebbe tradursi in una cucina non variegata che necessita di un appoggio alla gastronomia di un altro Paese.
Vorrei invitarvi in un piccolo viaggio nel tempo per esplorare cosa è accaduto alla cucina ucraina negli ultimi cento anni. Parleremo di questa famosa influenza russa per mostrarla per quello che è stata di fatto, dell’immaginario comune della cucina ucraina dal momento di riacquisizione dell’indipendenza e cosa accade oggi nel paesaggio gastronomico di un Paese in guerra che, sembra, debba ancora lottare per assicurarsi il diritto di parlare autonomamente.
In questo viaggio ci farà da guida Olena Braichenko, storica e ricercatrice della cultura gastronomica, cofondatrice del progetto “їzhakultura” (cibo e cultura, ndr) che si occupa di ricerche gastronomiche e della pubblicazione di libri a tema. Un progetto ucraino di importanza nazionale che permette di colmare le lacune di un approccio scientifico e antropologico alla tradizione gastronomica. Ci soffermeremo su influenze e avvenimenti chiave che hanno avuto un forte impatto non soltanto sulla cucina ucraina vera e propria, ma anche sulla mentalità gastronomica degli ucraini. E se, invece, qualcuno volesse scoprire delle ricette lo può fare attraverso questo libro: “Ucraina. Cucina e storie” (edito da L’Ippocampo).
Facciamo un tuffo nella fine del diciannovesimo secolo. Il territorio dell’Ucraina allora, come oggi, era popolato da varie nazionalità, il che ha reso questa cucina multiculturale. Bulgari, polacchi, tedeschi, greci o tatari di Crimea hanno portato qualcosa di loro, plasmando in questo modo il paesaggio gastronomico ucraino. All’epoca la cucina europea in generale era dominata da influenze perlopiù francesi. E nei menu dei ristoranti, presso gli alberghi nelle grandi città come Kyjiv, Odessa o Kherson, si potevano trovare dei piatti conosciuti agli abitanti del resto d’Europa occidentale: una bistecca alla sauce hollandaise o vinegar, un dessert con lo strudel tipico austriaco, varie meringhe o del buon caffè, ad esempio. Da notare che anche i nomi dei piatti erano originali del Paese da cui provenivano, ma con l’arrivo dei bolscevichi di questo non rimarrà neanche un ricordo.
È ovvio, esistevano vari ceti sociali, magari i contadini che vivevano in campagna non potevano permettersi il lusso di un ristorante, ma la carne fresca, delle verdure coltivate nel proprio orto o il pesce appena pescato nei fiumi e laghi consentiva di preparare dei piatti di qualità. I proprietari dei terreni avevano maggiori possibilità e dunque potevano permettersi di andare nei mercati e acquistare una serie di prodotti importati. Come racconta Olena Braichenko: «Esistevano delle fiere nelle quali si vendevano tanti prodotti importati tra cui mandorle, uvetta, datteri, noci, ananas. Nei pressi di Kyjiv c’erano delle serre in cui si coltivata varia frutta esotica seguendo la moda del momento. A prescindere dalle possibilità economiche si percepiva la multiculturalità della cucina».
Il periodo di instaurazione dell’Unione Sovietica è stato caratterizzato dallo spazzare via ogni cosa che fosse esistita prima di loro. «Caffetterie, ristoranti, non soltanto menu ma anche i macchinari importati dall’estero sono stati letteralmente distrutti. A partire dagli anni Trenta sono spariti una serie di prodotti utilizzati in cucina e di conseguenza anche i nomi di questi prodotti e dei piatti» aggiunge la ricercatrice. È stato l’inizio della fine della varietà culturale.
A seguire questa lotta alla borghesia è stata la guerra ai contadini ucraini, ovvero il cosiddetto Holodomor, la carestia artificiale indetta da Stalin durante gli anni 1932-1933. A volte penso che una certa riluttanza degli ucraini verso alcune verdure e, al contrario, un attaccamento e quasi la venerazione del pane sono la conseguenza di quel trauma di privazione del cibo che ha segnato anche le generazioni a venire, riscoprendo le stesse ferite anche nelle persone che hanno sperimentato l’occupazione russa con l’inizio dell’invasione su vasta scala nel 2022. Ricordo mia nonna mentre preparava il mangime per i maiali e tritava l’ortica e farinello, raccontava senza molti dettagli che durante la fame quell’erba era il loro unico cibo (era vietato parlare dell’Holodomor e molti anche dopo l’acquisizione dell’indipendenza temevano di farlo, ndr).
Andiamo avanti, ma rimaniamo sempre nel periodo sovietico. La ricercatrice Braichenko ci suggerisce di fare una distinzione tra la cucina sovietica e la cucina casalinga, in quanto la prima è stata caratterizzata dalle cosiddette normalizzazioni, ovvero quando le quantità dei prodotti e gli ingredienti di una certa ricetta o razione venivano definite a livello statale. Essa veniva rappresentata attraverso le mense pubbliche nelle fabbriche o anche nelle varie istituzioni. La cucina casalinga, invece, è il simbolo di come le donne e le mamme hanno cercato in ogni modo di dare alle proprie famiglie cibo fresco e di qualità, coltivando anche qualcosa nel proprio orto (quel poco che lo Stato voleva concedergli).
Una delle peculiarità rilevanti dell’Unione Sovietica era la totale diseguaglianza della popolazione, il contrario di quello che si dichiarava. E questo era ben rappresentato attraverso la distribuzione di cibo di qualità differente ai lavoratori delle fabbriche e agli abitanti di città grandi e piccole. Ad esempio coloro che lavoravano nell’industria pesante e della difesa nel Donbas potevano avere il cibo di qualità superiore, rispetto a coloro che lavoravano nelle fabbriche dell’industria leggera o vivevano in piccole città. «Nelle mense dei centri industriali si poteva avere la carne o il pesce, l’approvvigionamento era speciale. Al contrario per l’industria leggera o in piccole città arrivava il peggio, e invece di un’aringa fresca la gente si doveva accontentare del pesce o di conserve che si potrebbero appena definire commestibili», così la ricercatrice racconta di come già dall’inizio il periodo sovietico fosse segnato dalla disuguaglianza.
E poi c’era la nomenklatura e coloro che lavoravano nell’amministrazione pubblica: dopo gli anni Cinquanta esistevano delle fabbriche apposite che fornivano loro il cibo. «Nella seconda parte del ventesimo secolo questa disuguaglianza si è riversata in una sorta di clan. Coloro che lavoravano nelle istituzioni statali, nel partito comunista, avranno dei ricordi gastronomici ben diversi dagli altri. Loro ricorderanno i primi ristoranti, o che per le feste nei loro buffet c’era il caviale rosso, la carne di granchio, buon formaggio e la panna acida. Esisteva un’industria a parte che forniva il cibo alle strutture statali. Mentre, ad esempio, uno studente arrivato a Kyjiv da una piccola città negli anni Ottanta per la prima volta nella vita assaggiava il gelato».
In condizioni del tutto opposte viveva la gente in campagna. Innanzitutto fino agli anni Sessanta non avevano i passaporti e di conseguenza nessuna possibilità di trasferirsi o di trovare lavoro in città. Inizialmente lavorando gratis nei kolkhoz si dovevano accontentare di qualche sacco di grano, qualche tipo di grasso, fornito in cambio del loro lavoro. Non in tutti i villaggi c’erano dei negozi, ancor meno la possibilità economica di acquistare qualcosa, e per avere un pezzo di terra dove poter coltivare qualcosa spesso si doveva elemosinare al direttore del kolkhoz.
Il periodo sovietico nella sua interezza si potrebbe paragonare a un compattatore stradale che ha schiacciato milioni di vite umane. Il cibo è diventato uno degli strumenti di soppressione usata dal totalitarismo. Tutto questo ha portato a modificare l’atteggiamento verso il cibo, che cosa potesse essere qualificato come commestibile, ma anche il livello di commestibilità. Anche il lavoro umano non aveva valore. Sembra paradossale quello che è accaduto negli anni Novanta. Con la dissoluzione dell’Urss sul mercato ucraino si è riversata una quantità di prodotti stranieri con etichette colorate (un boom di colori dopo il cupo grigiore sovietico), di dubbia qualità ma che sono stati apprezzati dagli ucraini. «Negli anni Novanta il sistema di valori è alquanto paradossale. I prodotti di produzione casalinga come la carne, le uova, i prodotti caseari non erano apprezzati. In quanto nel sistema sovietico il lavoro umano non era valorizzato. Invece ai prodotti importati dall’estero, perché per averli pagavi dei soldi, per quanto sia triste, si prestava maggiore attenzione», racconta Olena Braichenko.
Con l’acquisizione dell’indipendenza nel 1990 gli ucraini hanno sentito un forte desiderio di riscoprire la propria cultura e la cucina. Tuttavia, inizialmente, questo è avvenuto ancora attraverso la visione sovietica, in cui la cultura popolare non viene considerata come un insieme di esperienze variegate, di sapori, di peculiarità regionali, del patrimonio culinario, bensì come un qualcosa di decorativo. E questo si è riversato nel fenomeno che fa percepire la cultura ucraina unicamente come folkloristica e festivaliera, molto volgarizzata e totalmente in stile contadino. Nei ristoranti di cucina ucraina venivano serviti dei tipici piatti come borscht, varenyky, holubtsi o vari tipi di carne. Olena Braichenko racconta che tutto questo poteva anche avere un buon sapore, ma messo tutto insieme sembrava un quadro iperbolizzato.
Eppure nel corso degli anni, specialmente dopo l’inizio del nuovo millennio, l’approccio alla cucina si è evoluto rapidamente. «Dal Duemila in poi gli chef iniziano a sperimentare, hanno studiato, comprendono la qualità dei prodotti nostrani e della loro varietà, adottano varie tecniche di preparazione e approcci nuovi», racconta la ricercatrice.
La situazione odierna in un’Ucraina sotto i costanti bombardamenti russi condiziona senz’altro anche il paesaggio gastronomico. Tuttavia questo non ferma l’apertura di tanti nuovi ristoranti, caffetterie e bistrot che offrono un servizio di altissima qualità. E per molti cittadini andare al ristorante è un modo per rifugiarsi in un’apparente normalità.
C’è anche un altro fattore che influenza lo sviluppo e arricchisce la cucina nazionale in generale: è l’immigrazione interna dalle regioni vicine al fronte verso il centro e l’ovest del Paese, che ha portato all’interazione tra sapori e tecniche di preparazione diverse, quelle che le famiglie sono riusciti a preservare nonostante l’influenza dell’Unione Sovietica. La carenza di elettricità e i vari problemi logistici inducono molti ristoratori ad acquistare i prodotti locali, tra cui anche il prosciutto crudo che in un certo senso ha aiutato a riscoprire e apprezzare quelle ricette ucraine di preparazione della carne, simili al prosciutto, che erano dimenticate.
In ogni caso l’approccio degli ucraini verso la cucina è stato da sempre quello di dover conservare qualcosa e pensare a un domani in cui potrebbe non esserci più nulla. Forse proprio questo atteggiamento, causato da un passato altro che benestante, ha aiutato molti ucraini a sopravvivere nelle zone occupate.
La ricercatrice Olena Braichenko conclude con le seguenti parole: «Non bisogna misurare la cucina ucraina paragonandola alla russa. La nostra cucina è autosufficiente e siamo pronti a parlarne senza dover appoggiarci alla cucina degli imperi».
Tuttavia, sono certa che con l’arrivo di tanti ucraini in Europa ci sarà la possibilità di scoprire quella che è la cucina ucraina moderna, ma anche i suoi piatti autentici, una cucina che sarà raccontata dagli ucraini stessi e non più vista attraverso il prisma russo.